Stampa e media tutti negli ultimi mesi hanno dato largo spazio al cosiddetto “Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti” (in sigla, ben più nota: TTIP), un accordo tra Unione Europea e Stati Uniti teso a realizzare la più ampia area al mondo aperta agli scambi. Fra voci entusiaste e gridi d’allarme si è ogni sede discusso su vantaggi, svantaggi, modalità più o meno segrete di consultazione dei testi, conseguenze per la nostra quotidianità. Ad oggi pare in verità che – complice anche la Brexit – il percorso verso il TTIP sia diventato molto meno fluido e scontato di quanto poteva apparire soltanto alcune settimane fa ed ora si attende il prossimo (o la prossima) Presidente degli Stati Uniti per capirne l’evoluzione.
Molta meno visibilità ha invece ricevuto l’Accordo Economico e Commerciale Globale, trattato di libero scambio assai simile al TTIP che vede però come protagonisti Unione Europea e – questa volta – Canada. In breve, pare che a Bruxelles ci sia sempre un’enorme desiderio di andare a “caccia” di dazi e barriere, rischiando poi di dimenticare gli effetti collaterali economici (la delocalizzazione ad est che porta disoccupazione ad ovest) e politici (la sindrome dell’idraulico polacco che inizia per alimentare il FN a Parige e finisce per incoronare Farage a Londra).
Eppure, nonostante il silenzio, le trattative fra le due sponde dell’Oceano Atlantico sono iniziate parecchi anni fa (correva il 2009) e hanno già visto la conclusione nell’agosto del 2014. In questo biennio di disinteresse collettivo si è proceduto alla traduzione dei testi dell’accordo in tutte le lingue dell’Unione per poi giungere alla definitiva approvazione.
Ma proprio all’ultimo miglio si sono iniziate a levare le prime voci. La posizione di Bruxelles, infatti, era di inquadrare il CETA come accordo meramente commerciale, la cui approvazione sarebbe stata devoluta al Consiglio con ratifica del Parlamento. Tutto ciò perché – Trattati Comunitari alla mano – la negoziazione commerciale è sottratta alla competenza dei singoli Stati membri; in breve, al mercato ci pensano – rapidi – gli eurocrati, dei poveracci dei barconi nel Mediterraneo occupatevene voi.
Qualcuno (un nome a caso: il neo Ministero dello Sviluppo Economico Carlo Calenda) si è subito schierato con Bruxelles, abdicando ad ogni velleità di autonoma valutazione. Altri (senza ironia e con molta onestà, chi conta veramente nel Continente: per la Germania il Vice Cancelliere Sigmar Gabriel e per la Francia il Segretario di Stato per il commercio estero Matthias Felk) hanno invece sottolineato come il CETA sia un accordo misto, pretenendo che l’approvazione dello stesso passi per tutti i singoli Parlamenti nazionali.
Com’è finita? Ovviamente la Commissione Europea si è piegata all’indicazione di chi detta l’agenda politica, così smentendosi a pochi giorni di distanza (era appena il 29 giugno quando Jean-Claude Juncker ancora difendeva la trincea della natura non-mista dell’accordo). Nel tentativo di trovare una scappatoia (molto italiana, si potrebbe ironicamente commentare) Bruxelles ha chiesto che, ottenuta la ratifica del Parlamento Europeo, comunque l’accordo entri in vigore, in modo – potremmo dire – provvisorio.
Non possiamo quindi che domandarci cosa riservi il futuro. L’immediata entrata in vigore del CETA lascia particolarmente perplessi perché potrebbe determinare, in caso di successiva mancata approvazione anche da parte di un solo stato membro, strascichi legali internazionali non indifferenti. Nel caso, la disperata necessità di garantire continuità ai rapporti in essere da parte dei negoziatori di entrambi i lati e non vedere affossato l’ennesimo accordo che si è cercato di paracadutare dall’alto, costringerà a trattative serrate e concessioni con i singoli Stati (già ad esempio Bulgaria e Romania avanzano – più o meno velatamente – come merce di scambio la questione della politica d’ingresso dei loro cittadini in Canada). La scusa dell’eccessivo dilatarsi dei tempi, nell’attesa di tutte le eventuali approvazioni, ha modesto spessore: quando vuole imporre delle scadenze tutti conosciamo la capacità persuasiva di Bruxelles.
In ogni caso da questa corsa all’ottenimento di qualche concessione sarà esclusa l’Italia: la fretta di assecondare Jean-Claude Juncker da parte del Ministro Carlo Calenda ci schiera automaticamente fra gli entusiasti che nulla hanno a pretendere. E i vantaggi dell’accordo? Già i rapporti commerciali fra Canada ed Italia sono buoni, ed un incremento – favorito dall’assenza di dazi e barriere – di certo avrebbe larghi consensi. Ciò che anche in questo caso deve preoccupare il nostro Paese è la tutela dei prodotti tipici nell’ambito agroalimentare; più voci hanno infatti sottolineato come il CETA consegni l’utilizzo di locuzioni gastronomiche italiane ad alimenti su cui sventola la foglia d’acero.
Ovviamente, come in ogni accordo, è impossibile avere solo vantaggi e pertanto dobbiamo domandarci se il sacrificio dell’agroalimentare possa essere compensato dalla caduta di alcuni dazi. In breve, dopo l’olio (a cui rimando) potremmo perdere formaggi, frutta, verdura (per fermarsi a pochi esempi): siamo sicuri che tutto questo valga qualche barriera in meno?
0 commenti