Uno spettro si aggira per l’Europa, viene sempre dalla Germania, ma non è più il comunismo, bensì la Deutsche Bank e i suoi miliardi in derivati e i rischi di un maxi-multa da parte delle autorità di vigilanza statunitensi. E mentre in Italia ci si preoccupa – giustamente – per Monte Paschi, avendo già subito i richiami di Berlino (a luglio un portavoce del Ministro delle Finanze tedesco sottolineva come fosse importante: “[…]evitare che i contribuenti debbano pagare di tasca loro per problemi bancari”, volendo così stroncare l’ipotesi di un intervento pubblico italiano a sostegno di Siena”), nel Continente continua la politica delle eccezioni e delle chiamate personali per consentire ad alcuni quello che ad altri è vietato. Con rischi, tuttavia, sempre scaricati a valle. Ma narriamo questa storia dall’inizio.
La Deutsche Bank, fondata nel 1870, è il più importante istituto di credito tedesco, con oltre 100.000 dipendenti e la presenza ovunque sull’orbe terracqueo. Da sempre “banca di sistema” in Germania, al centro di ogni operazione degna di nota e con partecipazioni capillari e diffuse nei principali gruppi imprenditoriali, è stata sempre rappresentata come il “fiore all’occhiello” della finanza teutonica, precisa, pulita, capace, spesso in antitesi con l’opaco mondo bancario tricolore (nel contesto di una ormai svelata ipocrita operazione di frammentazione dell’orgoglio nazionale). Le prime macchie, tuttavia, in questa narrazione idilliaca già sorgono ad aprile 2015 quando le autorità di vigilanza inglesi e statunitense infliggono alla Deutsche Bank una multa di 2,5 miliardi per manipolazioni dei tassi benchmark Libor, Euribor e Tibor: i vertici dell’istituto scaricano – more solito – la responsabilità sui livelli inferiori, ignorando – rectius: fingendo di ignorare – in primis che chi ha agito lo ha fatto, ovviamente, ad interesse esclusivo della banca, ed in secondo luogo che le voci di inferenze illecite in materia erano note già da anni. In breve, il tempo per intervenire ci sarebbe stato, ma nessuno ha agito.
Lo scandalo, che inizialmente pare nascere dalla classica nota di aviditià, alimenta le voci di Deutsche Bank come grande malato del sistema bancario, con il sottile pensiero che quelle manipolazioni, più ad incrementare guadagni, potessero servire per tappare buchi. Negli stessi mesi della condanna, la stampa specializzata e non inizia a rilanciare alcuni dati economici che non inducono all’ottimismo: il 50% di valore perso in Borsa dal 2010, i doppi cambi al vertice, la redditività crollata a fronte dell’aumento dei ricavi complessivi, il rating retrocesso, et coetera. Ma soprattutto espolde la notizia dei 570 (o forse più: nessuno lo sa esattamente) miliardi di derivati in pancia (ora identificati da tutti come il male assoluto) e del contenzioso che ribolle con la SEC. La situazione non migliora, a febbraio si prende atto del crollo in Borsa e si registra – addirittura! – la difesa del falco Wolfgang Schäuble, Ministro delle Finanze tedesco, che tuona “[..] i mercati stanno esagerando”, ma ormai la valanga non si arresta.
Giunge infine settembre, e forse i vertici dell’istituto tedesco vorrebbero vivere nella celeberrima canzone dei Green Day “Wake me up when september ends”: nel giro di pochi giorni prima si vedono annunciare una multa da 14 miliardi di dollari da parte delle autorità di vigilanza statunintensi per contestati comportamenti scorretti nella vendita di obbligazioni legate ai mutui subprime, poi registrano la fuga degli hedge-fund che all’unisono si disimpegnano dalla nave che affonda. I mercati prendono atto di tutto – ovviamente – fra un valore di borsa che scivola a 15 miliardi (un anno fa era pari al doppio), i credit default swap che schizzano a 500 e un po’ di sano saliscendi nelle 24 ore alimentato dalla speculazione. La vera domanda rimane tuttavia sempre e solo una: ed ora?
La reazione tedesca è stata – come sempre – molto pratica. Mentre in Italia su Monte Paschi si invoca più flessibilità nelle regole europee per giungere ad una qualche forma di aiuto pubblico (e – ovviamente – si raccolgono, come già visto sopra, netti “no”) a Berlino la Cancelliera Angela Merkel telefona al presidente americano Barack Obama: il colloquio non è noto, ma con la cornetta appena appoggiata già circolano voci di una riduzione della maxi-multa. Messa così una prima toppa, la banca alle prese con redditività ormai modesta e sfiducia del mercato continua ad imbarcare acqua e si inizia a valutare se a Francoforte sul Meno toccherà il non invidiabile record del primo -mostruoso – bail-in continentale. Gran parte dei partner, ed il premier Matteo Renzi in testa, sfoggia una pelosa comprensione verso lo strappo alle regole europee che nasconde in verità il sollievo di potere fare lo stesso a casa propria, così da non dovere fronteggiare obbligazionisti e risparmiatori inferociti puliti dei propri risparmi. A parere del sottoscritto si tratta di una vana speranza: Deutsche Bank non può essere lasciata fallire (e non perché sia “too big too fail”, remember Lehman Brothers? ma perché i tedeschi hanno orrore della ritirata fino la più oltre ragionevole follia, remember Volgogrado, già Stalingrado?) ma i soldi andranno trovati nel contesto normativo europeo più o meno attuale e quindi con il bail-in quale prima opzione.
Sottolineo: prima opzione ma – questo il rischio – non unica. I contribuenti tedeschi, infatti, alla vigilia dell’anno elettorale 2017, già tentati dai partiti emergenti che danno voce alla protesta contro immigrazione e Bruxelles, possono sicuramente condannare gli aiuti di stato, ma faticano anche a digerire le sforbiciate ai conti correnti e alle obbligazioni che le regole a stelle su fondo blu prevedono. L’unica soluzione, per la Cancelliera, è meglio distribuire l’onere del salvataggio, possibilmente non a carico dei propri elettori. E c’è un mercato dove Deutsche Bank è ben presente, conta 350 sportelli, 3 milioni di clienti, 1,5 miliardi di raccolta nel 2015 ed un boom incredibile di mutui e – soprattutto – surroghe: avete indovinato, parliamo dell’Italia. E in Italia vi è anche quella norma, l’art. 118 del Testo Unico Bancario (TUB, d.lgs. 1 settembre 1993 n. 385), che consegna alla banca la facoltà di modificare unilateralmente i prezzi e le altre condizioni previste dal contratto (ad eccezione di tasso di interesse e durata: ad esempio spese per comunicazioni periodiche o d’incasso rata) qualora sussista un giustificato motivo. Ipotesi di scuola? Non esattamente, visto che proprio di recente Banco Popolare, UniCredit e Ubi hanno unilateralmente aumentato i costi dei loro conti correnti per rientrare del contributo dato al fondo salva-banca. In questo caso si tratta di poche decine d’euro a fronte del versamento – da parte dell’intero sistema creditizio italiano – di circa 3,6 miliardi di euro (per fare un esempio concreto, Unicredit a fronte della corresponsione di circa un miliardo di euro ha inserito aggravi diffusi di oltre 20 euro nei dodici mesi). Che aumento può quindi essere necessario per salvare, da parte dei tanti piccoli mutuatari, un colosso per cui si stima sia necessaria liquidità per 20 miliardi di euro?
Non solo: l’utilizzo dell’art. 118 del TUB rischia di portare al centro del bail-in anche la figura del mutuatario. Il ragionamento che già inizia a circolare è il seguente: se a “sanare” l’istituto in difficoltà devono essere azionisti (che hanno investito), obbligazionisti (che hanno prestato a loro rischio e pericolo) perché chi ha ricevuto è tenuto indenne da tutto? Nella parabola del servo senza pietà che ci riporta il Vangelo di Matteo, Gesù Cristo insegna ai debitori a loro volta creditori di mostrare – verso i loro obbligati – la stessa pazienza di cui fanno richiesta, ma il mercato bancario vi è poco posto per la carità cristiana. Così anche ai poveri mutuatari potrebbe essere chiesto di fare la propria parte, magari – non potendo unilateralmente modificare i tassi d’interesse – irrigidendo i termini del rimborso, per recuperare a breve termine immediata liquidità ed infliggere salate more a coloro che non ne fossero nelle possibilità.
In conclusione, pensare che la vicenda Deutsche Bank possa essere totalmente indolore per i consumatori italiani è francamente utopistico. La leadership tedesca non può permettersi il crollo del proprio principale istituto di credito ma non può neppure accettare un bail-in indiscriminato che lascerebbe furenti gli elettori spolpati. La soluzione è – come troppo spesso accaduto – in Europa, con un possibile – generale – cambio delle regole, e l’ingresso, quali contributori attivi, anche dei mutuatari, e – particolare – ricorso, nella Penisola, mercato importante per la banca tedesca, del legale e già presente meccanismo di cui all’art. 118 del TUB. Rimane da capire cosa cittadini e classe dirigente italiana possano e debbano fare. Per i primi – non essendo questa sede deputata a suggerimenti commerciali o finanziari – non si può che indicare la necessità di valutare bene contenuto e clausole dei contratti di mutuo (e di surroga) che si vanno a sottoscrivere, informandosi anche sullo stato dell’istituto erogante. Chi guida il Paese deve invece farsi carico, in Europa, della doverosa battaglia per cambiare le regole a vantaggio di una maggiore flessibilità e non a scapito dei nostri interessi; in Italia, invece, è forse tempo di rivedere l’art. 118 del TUB che con la sua unilateralità rappresenta un unicum francamente incomprensibile.
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