Il sistema bancario e il debito privato sono i grandi fardelli dell’Italia, non il deficit pubblico o la macchina statale: una verità scomoda ma ormai sempre più nota anche ai meno attenti. Anni (lustri?) di generosi finanziamenti ai soliti noti e scarsa attenzione anche ai piccoli mutuatari hanno appesantito i bilanci dei nostri istituti, che rischiano di trascinare nel baratro il Paese, lasciando indenni vertici e responsabili delle scelte di gestione.
L’ormai fu Governo Renzi aveva ben presto capito come il settore creditizio fosse la principale urgenza d’Italia; tuttavia, fra una riforma costituzionale il cui epilogo è ora noto, e una diffusa incapacità a scrivere norme – che servissero a tutelare più le banche che i consumatori, impedendo di procedere con una sana regolamentazione che perseguitasse anche le scelte sbagliate – ben poco è stato fatto. E quel poco, come accaduto per altri ambiti, già oggetto di una personale analisi critica, rischia di incorrere nelle censure della magistratura.
E’ il caso – si entra nel dettaglio – di parte della riforma delle banche popolari, contenuta nel decreto legge 24 gennaio 2015, n. 3, convertito in legge 24 marzo 2015 n. 33. Nel provvedimento adottato dal Governo, ovviamente con necessità e urgenza, nel solco del classico “ce lo chiede l’Europa”, coma chiarì il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, all’art. 1 si interveniva sull’art. 28 del Testo Unico Bancario, inserendo un comma 2-ter, in cui era prevista la possibilità, per la Banca d’Italia, di limitare il diritto al rimborso delle azioni in caso di recesso dei soci delle banche popolari, anche in deroga alle norme di legge. Questa limitazione al dettato del Codice Civile veniva motivata con la necessità di evitare un “esodo” dei soci tale da mettere in difficoltà – patrimoniale – l’istituto di credito in trasformazione. Via Nazionale ha dato seguito alle volontà dell’esecutivo con la propria circolare n. 285 ma – nel mentre – sono iniziati a fioccare i ricorsi alla giustizia amministrativa.
E così, con il TAR Lazio che nell’ottobre 2015 rinvia la riforma alla Corte Costituzionale in seguito ad un ricorso presentato dalla Regione Lombardia, interviene il Consiglio di Stato che – con ordinanza datata 2 dicembre – sospende in via cautelativa proprio la circolare della Banca d’Italia nel punto in cui comprime il diritto di recesso. Il provvedimento di Palazzo Spada ha solo natura cautelativa, e rinvia un pronunciamento sul merito alla decisione della Corte Costituzionale, ma rappresenta di certo uno spunto interessante e l’ennesima conferma di una – manifesta e ripetuta – modestia in fase di promulgazione normativa.
Quali, dunque, le prospettive che ci aspettano? I profili sono vari. Sicuramente, e questo va chiarito per onestà, il Consiglio di Stato non ha bocciato la riforma o bloccato il meccanismo di trasformazione. I principali istituti interessati hanno già compiuto il fatidico passo e i rimanenti provvederanno entro fine anno. I soci riluttanti potrebbero avere qualche arma in più, se non per opporsi almeno per vedere valorizzata la propria partecipazione; e per i “già receduti” potrebbe aprirsi la porta per qualche ulteriore rimborso. Degno di nota – in verità – è l’approccio del Consiglio di Stato all’intero tema dei salvataggi bancari. La riduzione del diritto di recesso nasceva da una contrapposizione fra due interessi che rischiano di confliggere: quello del socio al rimborso e quello della banca al mantenimento del proprio patrimonio. In breve, il Governo (e a cascata la Banca d’Italia), dovendo scegliere chi tutelare, ha salvato gli istituti di credito a discapito dell’investimento degli azionisti, nell’ottica di “salvaguardare” l’intero mercato del credito. RIducendo ad unum, un meccanismo che ben si inserisce nel solco di bail-in e “patente” del correntista, in una ricostruzione di “responsabilizzazione” del consumatore che lascia molto perplessi.
La posizione già espressa ripetutamente sul punto muove da un approccio totalmente diverso. E’ innegabile che sia necessario puntellare e sostenere le banche italiane: un loro collasso trascinerebbe nel baratro l’intero sistema Paese. Quest’opera di salvataggio, tuttavia, non può ideologicamente passare per un’esproprio delle ricchezze di chi – in buona fede, senza istruzione, convinto o addirittura a volte obbligato – ha investito i propri risparmi. I veri problemi dei nostri istituti nascono da anni di scelte centrali gestionali che si macchiano di incapacità e opacità, con cui sono stati affossati i bilanci. Pertanto la strada obbligata è la responsabilizzazione dei vertici, non dei correntisti; la sterilizzazione del voto delle partecipazioni in conflitto d’interessi, non la riduzione del diritto di recesso; la meritocratica selezione dei vertici, non la previsione di patenti per gli azionisti. Delude – e lo si dice con l’ammirazione verso via Nazionale di chi ama il proprio Paese – vedere una Banca d’Italia latitante in sede ispettiva ma prontissima nel recepire le previsioni normative che puniscono il cittadino. E la giurisprudenza, ponendo dei paletti, pare recepire questa ricostruzione.
La riforma delle popolari, come la riforma Madia, come tanti altri provvedimenti degli ultimi mille giorni, dovrà essere rivista. L’auspicio che vi sia un radicale revirement, con una più netta attenzione ai vertici degli istituti, e non ai di loro clienti. Sarà comunque necessario chiedere sacrifici all’intero Paese, ma almeno ciò avverrà dopo avere reso palese la severità dello Stato nei confronti di chi ha lasciato le banche italiane fra le macerie. Nel mentre, il consiglio pratico al cliente-cittadino è quello di scegliere con attenzione il proprio istituto di riferimento e – in ogni caso – partecipare, se azionista, alla scelte che ne condizionano l’esistenza. L’Italia ha appena vissuto un referendum con un’affluenza altissima: e nella politica come nell’economica, citando Gaber, la liberà è partecipazione.
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