Nel celeberrimo dipinto “La Libertà che guida il Popolo”, il pittore romantico Eugene Delacroix – impegnato a consacrare l’insurrezione del 1830 – inserisce quale protagonista centrale Marianne, simbolo della Libertà e personificazione della Francia. Nella moderna Italia, spenti da decenni i moti rivoluzionari, abbiamo una ben più vestita Marianna – Madia, ministro senza portafoglio per la semplificazione e la pubblica amministrazione – la quale ha legato la sua immagine non alla Libertà bensì alla riforma che da lei prende nome. E gli esiti, un Delacroix, le Alpi, quasi duecento anni dopo, sono assai diversi. L’attenzione mediatica al tema è stata notevole, concentrandosi in particolare (in una caccia al “dipendente pubblico”, colpevole di ogni nefandezza, che in Italia ormai ricorda gli eccessi del maccartismo) su licenziamenti più facili, tetti ai compensi, tagli alle partecipate, addio al corpo forestale, trasparenza degli archivi, et coetera. Accanto a spunti condivisibili e anche necessari per modernizzare il Paese emerge in verità un pressapochismo imbevuto di demagogia (il problema della dirigenza è la qualità del lavoro, non la quantità della retribuzione; i forestali devono essere ricollocati; e tanto altro..) che fin dall’inizio ha alimentato diverse voci critiche.
In tale mare magnum – infatti – emergeva subitaneo il rischio di un conflitto, in alcuni settori, fra la competenza (e la potestà) statale e quella regionale. Non solo: sulla stessa sostanza di alcuni fra i principali profili d’intervento (in particolare in ambito di pubblico impiego e relativa dirigenza) già il Consiglio di Stato, ad ottobre 2016, esprimeva un parere tanto negativo da parere tombale. E anche apppena si varcava le aule della giustizia i risultati non erano incoraggianti, con il TAR Lazio che annullava il regolamento dell’Agenzia per l’Italia digitale relativo alla gestione dei servizi digitali e in particolare al cosiddetto Spid, il sistema pubblico per la gestione dell’identità digitale di cittadini e imprese.
Ma è stato – come anticipato – il rischio di conflitto fra Stato e Regioni che ha alimentato le polemiche più roventi, con il Veneto che ha presentato ricorso alla Corte Costituzionale lamentando un’invasione di campo dell’Esecutivo in settori di sua competenza. E la Consulta, con la sentenza n. 251, ha dato ragione al ricorrente, intervenendo in maniera giuridicamente ineccepibile e politicamente devastante sulle norme della legge delega in materia – in particolare – di pubblici impiego, dirigenza e partecipazioni. Il ragionamento della Corte Costituzionale muove, preliminarmente, dalla necessità di valutare se l’intervento delegato dell’Esecutivo investa un settore che sia di principale interesse statale o concorrente. Nel secondo caso risulta necessario il rispetto del principio di leale collaborazione; principio che si esplica con l’assunzione di un accordo con le Regioni. E detto accordo non può – come vuole Palazzo Chigi – passare per una semplice parere, bensì necessariamente tramite una ben più corposa (e rispettosa) intesa da convenire in sede di Conferenza Stato-Regioni.
La decisione della Corte, in breve, riduce in tranci la riforma Madia e impone al Governo di riscrivere almeno tre decreti e rivedere con attenzione quelli già pronti ma ancora nel cassetto. Inoltre d’ora innanzi l’Esecutivo dovrà confrontarsi – nel rispetto della Costituzione – con le singole Regioni negli ambiti di competenza concorrente di queste ultime, in un contesto che – si auspica – contribuisca a riqualificare una produzione normativa francamente ad ora di modesta qualità. Per quanto interessa primariamente l’ambito notarile è da valutare il d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 che impone la rivisitazione degli statuti delle società partecipate; nel decreto si prevede il termine del 31 dicembre, ma essendo l’ambito interessato dalla pronuncia della Consulta è suggeribile avere un atteggiamento prudenziale (nulla, ovviamente, vieta di procedere in ogni caso nelle modifiche richieste, seppure non più dovute).
Da ultimo, non ci si può esimere da un commento sull’intera vicenda. La riforma Madia – di cui, ripeto, si comprende la necessità per quanto riguarda alcuni determinati spunti – rischia di rappresentare l’ennesima figuraccia di un Esecutivo evidentemente poco capace in sede di redazione delle norme. Gli operatori del diritto – fra cui i Notai, ma anche avvocati, pubblici dirigenti – si trovano costretti a “navigare a vista”, sapendo che ogni provvedimento rischia di essere successivamente sanzionato a causa di vizi manifesti. Questa incertezza non aiuta il Paese e contribuisce a rendere impossibile una ripresa economica che non passa – e non può passare – per leggi più facili da approvare ma necessita disperatamente di provvedimenti certi, sicuri e meglio scritti. Lascia infine basiti leggere di strali contro la Corte Costituzionale descritta come “burocrazia che blocca il Paese”: da chi guida l’Italia ci si aspetta rispetto per tutte le istituzioni repubblicane. E se ora, con due camere, la navette e controlli incrociati, le leggi sono scritte così male da essere incostituzionali, cosa rischiamo di avere quando solo un ramo del Parlamento potrà legiferare?
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