La Camera dei Deputati ha approvato il disegno di legge presentato dalla senatrice Monica Cirinnà, confermando quanto già votato dal Senato della Repubblica lo scorso 25 febbraio. Le unioni civili diventano pertanto legge della Repubblica, in attesa della (formale) pubblicazione e promulgazione.
L’iter che ha portato all’approvazione è stato non facile, attraversato da innumerevoli polemiche sia sul merito delle norme che del procedimento: la blindatura del testo determinata delle due mozioni di fiducia, alla Camera e al Senato, rischia di lasciare una netta ferita politica la cui profondità potrà forse valutarsi in sede di referendum previsto per il prossimo ottobre.
Non si vuole qui discutere l’opportunità o la necessità del provvedimento, bensì anticipare alcune valutazioni meramente tecniche in attesa di altri autorevoli commenti e – soprattutti – i primi inevitabili pronunciamenti giurisprudenziali. Chiarendo, innanzitutto, come la nuova disciplina preveda da un lato la figura dell’unione civile e dall’altro il contratto di convivenza (art. 50) quale nuovo istituto teso a disciplinare i rapporti patrimoniali tra conviventi di fatto. Tre aspetti, in particolare, alimentano le perplessità.
In primis, la previsione di un obbligo di mantenimento in ipotesi di cessazione della convivenza. Nel tentativo di dare “più diritti” immancabilmente si finisce per dare anche “più oneri”. Non solo: il dettato normativo, sul punto, parla di “cessazione della convivenza di fatto” e non del “contratto di convivenza”. Il rischio, su cui si dovrà tornare, è che l’obbligo di mantenimento finisca per applicarsi a tutte le situazioni di fatto, con conseguenze a rischio paradosso. In breve, chi non si sposava per timore di successivi divorzi con assegni a carico ora ha solo una scelta: vivere da solo. Dai giovanissimi innamorati che provano la prima esperienza di convivenza agli anziani affidati a persone estranee alla famiglia il rischio di conseguenze economiche gravose collegate a mere situazioni di fatto diventa non trascurabile.
In secondo luogo, premettendo l’essere parte in causa, perplime l’equiparazione voluta dal legislatore fra autentica notarile e autentica dell’avvocato. I contratti di convivenza potranno essere ricevuti da avvocati e da notai, e – formalisticamente – non ci sarà nessuna differenza. Certo, i notai saranno tenuti agli obblighi di conservazione, potranno rilasciare copie autentiche e con formula esecutiva, saranno soggetti al controllo dell’Archivio Notarile; in breve saranno gravati da maggiori oneri che assicurano – al cliente e all’ordinamento tutto – maggiore tutela, ma la centralità della questione non sarà di universale comprensione.
Infine, rimangono abbozzati in maniera confusa i profili pubblicitari. Il contratto di convivenza deve essere notificato in copia entro dieci giorni ad opera del professionista che l’ha ricevuto al Comune di residenza dei clienti. Quale genere di copia? Cosa accade in caso di mancata trasmissione? Siamo certi della sufficienza dell’iscrizione all’anagrafe e dell’inserimento di un nuovo onere a carico di Comuni già stretti tra tagli alla spesa e ataviche difficoltà organizzative?
Il tema centrale, in conclusione, ritorna e rimane quello di una Repubblica sempre più debole, anche nell’attività produzione legislativa, che rinuncia ai controlli, con un’inevitabile scadimento delle tutele per i soggetti più deboli (per motivi economici, culturali, di salute, etc..). Il singolo e le sue scelte vedono un periodo di estrema “responsabilizzazione”, con il conseguente aumento di rischi per eventuali scelte sbagliate. Nell’attesa di potere invertire questa deriva normativa non si può che suggerire la massima attenzione nell’individuazione dei compagni di viaggi (che siano di convivenza, di apertura di un conto corrente o di consulenza professionale).
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