La psicosi collettiva che sta investendo il Continente (isolato causa nebbia inattesa sulla Manica..) ed i suoi mercati finanziari (e anche oltre..) a seguito della cosiddetta Brexit impone un primo riscontro circa gli effetti giuridici immediati conseguenti alla decisione dei cittadini del Regno Unito di lasciare l’Unione Europea.
Come prontamente chiarito dal Centro Studi del Consiglio Nazionale del Notariato nella propria comunicazione di venerdì 23 giugno, dal punto di vista giuridico nulla è ancora accaduto o accadrà a breve. Il Trattato sull’Unione Europea (TUE: ai più noto come “Accordo di Maastricht”, dalla località olandese in cui fu sottoscritto nel 1992) ed il Trattato sul Funzionanto dell’Unione Europea (TFUE: derivante dai primi accordi di Roma del 1957, più volte modificato e rinominato, fino all’attuale formulazione conseguente al Trattato di Lisbona del 2007) contengono una corposa disciplina circa modalità e tempistiche del recesso da parte di un Paese membro, con la necessità, per l’effettiva cessazione delle convenzioni in essere fra Unione Europea e Regno Unito, di attendere l’entrata in vigore dell’accordo di recesso, ovvero il termine di due anni dalla notifica della volontà dello stato uscente di lasciare Bruxelles.
In sintensi, “nihil novum sub sole“ – ad oggi – per cittadini, professionisti ed imprese italiani (ed europei) nei propri rapporti commerciali e contrattuali con Londra. In tal senso si è espresso anche Donald Tusk, polacco attuale Presidente del Consiglio europeo , che ha precisato come “non ci sarà un vuoto giuridico perché la legislazione Ue continuerà a essere applicata al Regno Unito”.
Sulla tempistica dell’uscita, invece, si naviga ancora nel campo della speculazione politica, fra azzardate dichiarazioni bellicose da un lato (Jean Claude Juncker, Presidente della Commissione Europea: “L’uscita del Regno Unito dalla Ue non avverrà come un divorzio consensuale […] Non capisco perché il governo britannico abbia bisogno di aspettare sino ad ottobre“), e più prudenti segnali di attesa da parte dei partner comunitari (Angela Merkel, Cancelliera Tedesca: “Immagino che anche la Gran Bretagna voglia mettere in pratica le decisioni del referendum […] non mi bloccherei sulla questione dei tempi brevi“). La previsione da condividere è che vi saranno mesi di lunghe trattative anche a causa della totale impreparazione di Bruxelles sul punto: un piano “Brexit” non esiste perché solo supporlo avrebbe alimentato il “coraggio dei sì” e pertanto si dovrà correre per redigere e disciplinare punto per punto l’accordo di recesso. L’ennesima dimostrazione di burocratica inefficienza per un’Unione che regolamenta tassativamente anche la misura dei cetrioli ma giunge impreparata all’evento più deflagrante della sua storia.
Allungando lo sguardo, e rimanendo nel campo delle valutazioni personali, a seguito del recesso non ritengo vi saranno le paventate “conseguenze estreme” nei rapporti – in particolare commerciali – fra Italia e Regno Unito. E’ plausibile che per Londra si adotterà lo strumento dell’EFTA (Associazione europea di libero scambio), già in essere con altri Paesi (Norvegia, Liechtenstein e Islanda), che in pratica estende le quattro libertà europee – circolazione dei beni, delle persone, dei servizi e dei capitali – anche a Stati esterni all’Unione, demandandone ad organismi paritetici (e non centralizzati e deresponsabilizzati) la regolamentazione. Ulteriormente, si procederà alla firma di vari accordi bilaterali fra Oltremanica ed i vari partner commerciali, si confida maggiormente “bilanciati” sulle effettive esigenze dei singoli sottoscrittori, fuori dai vincoli della burocrazia di Bruxelles. E’ plausibile che sia invece il settore bancario e finanziario quello che creerà i maggiori problemi. L’uscita dall’Unione Europea accentuerà infatti le difficoltà nello scambio di informazioni fra le Autorità Italiane e Londra, non sempre cooperativa. Nel mentre, gli istituti di credito della Penisola sono stati fra i più colpiti – in Borsa – dalla Brexit. Le due circostanze non devono però indurre a conclusioni affrettate, ma impongono un’ulteriore considerazione. Lo scambio di informazioni – soprattutto nella lotta ai crimini dei cosiddetti colletti bianchi – è una necessità di ogni Paese occidentale, e sarà compito del nostro Governo concludere direttamente con Londra un congruo accordo bilaterale a riguardo. Le banche italiane sono invece crollate in Borsa non per l’esito del referendum (ed infatti analoga “disfatta” non ha toccato gli istituti di credito britannici) ma perché gravate dai loro mali strutturali, quali scarsa redditività, opacità gestionale e montagne di crediti inesegibili. Ma questi problemi, come più volte evidenziato, non nascono da fattori esterni ma dal vero limite della legislazione bancaria nazionale: la totale assenza di concreta responsabilità in capo ai soggetti direttivi. A seguito di ogni crisi bancaria quanti e quali condanne abbiamo avuto? Mentre a Londra il Serious Fraud Officer chiede ed ottiene un mandato d’arresto europeo per cinque banchieri accusati di avere manipolato l’Euribor e la Financial Conduct Authority condanna istituti di credito e compagnie assicurative a multe miliardarie, in Italia latitano tanto i controlli quanto le sanzioni, con assoluzioni generalizzate da parte di organi di vigilanza, consigli d’amministrazione, soci forti.
Infine, tornando del solco del “mero diritto” ad uscire veramente rinforzato dal Brexit è il sistema giuridico continentale del “civil law” contrapposto al “common law” britannico. Sistema in cui il Notariato in generale ed il singolo Notaio quale soggetto terzo, pubblico ufficiale con tariffa determinata dallo Stato, rappresenta un punto centrale, presente in tutti i principali Paesi Europei (Spagna, Francia, Germania, et coetera..). L’uscita del Regno Unito ci impone pertanto di abbandonare certe tentazioni deregolatrici che non sono proprie della nostra storia e che stavano iniziando a rappresentare un grave colpo alla sicurezza dei traffici giuridici, con le inevitabili conseguenze economiche (basti pensare, a mero titolo d’esempio, al costo – in spese di giustizia – conseguente all’incertezza sulla proprietà degli autoveicoli dovuta alla soppressione dell’esclusiva notarile per i passaggi di proprietà).
La vittoria del leave al refendum rappresenta l’enorme sconfitta non tanto del progetto di integrazione europeo ma dell’eurocrazia di Bruxelles, dei suoi vincoli inaccettabili per la gente comune (che però vota e decide) e dei suoi regali turboliberisti a grandi gruppi e lobby continentali. Solo fermandosi, smantellando un impianto normativo che non tutela più i cittadini e ripartendo dall’Europea dei diritti invece che da quella dei merca(n)ti si potrà immaginare un futuro comune. Altrimenti, la strada verso la necessaria riconquista degli spazi nazionali è già segnata.
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