Un bagno nel mare cinese meridionale

da | 13 Lug 2016 | politica

Nel mondo globalizzato in cui una farfalla batte le ali a Pechino e a New York arriva la pioggia, anche l’Italia rischia di essere coinvolta – seppure indirettamente – in un arbitrato deciso all’Aia che travolge isolette e scogli nel mare cinese meridionale. Ma, nella scia dei commenti e delle puntuali ricostruzioni di queste ultime ore, andiamo con ordine.

Le isole Spratly sono una miriade di isolette, lembi di terra, scogli, atolli, più o meno naturali, situate nel mare cinese meridionale e contese da una pluralità di Stati (Cina, Vietnam, Filippine, Malesia, Taiwan, Brunei). Il motivo di cotanto interesse è dato dai – pare – importanti giacimenti petroliferi e di gas naturale, nonché dalla possibilità, in particolare per i Cinesi, di ampliare il proprio spazio marittimo.

La corsa all’accaparramento dell’arcipelago ha conosciuto fondamentalmente tre fasi. La prima “di colonizzazione”, con l’insediamento, su un territorio non noto per l’ospitalità, di contingenti militari che hanno occupato atolli, scogliere, banchi di sabbia. In un secondo momento – finita la terra calpestabile – si è iniziato, in particolare ad opera dei Cinesi, a realizzare nuove isole artificiali, in una novella Montecarlo con meno yacht ma più petroliere e portaerei. La decisione destò la preoccupazione della comunità internazionale in generale e degli interessati vicini, portando infine le Filippine a ricorrere alla Corte Permanente d’Arbitrato con sede all’Aja.

La decisione, datata 12 luglio, ed ormai ampiamente pubblicizzata, ha condannato le azioni cinesi, dichiarando insussistente le pretese di Pechino su quel tratto di mare. Da qui, le prime conseguenze.

Mentre nelle Filippine si festeggia, e probabilmente anche a Washington si guarda con una certa soddisfazione alla decisione che pare mettere un freno all’imperialismo della seconda potenza mondiale, la reazione cinese è stata furiosa, con un crescendo di dichiarazioni che partono dal discredito nei confronti della Corte fino alla minaccia di proteggere anche militarmente i propri confini.

In tutto questo, tralasciando il concreto e diritto interesse per un lembo del nostro pianeta così lontano da noi da non meritare forse una puntuale attenzione, dobbiamo però porre gli interessi italiani. In questo percorso, a mio modesto parere, tre distinte ma contigue considerazioni si incuneano.

I rapporti commerciali sino-italiani sono decisamente importanti. Pechino rappresenta un’enorme mercato, ancora in fase d’espansione. Come ha recentemente affermato Jack Ma, fondatore e presidente di Ali Baba Group, “Noi siamo riusciti a vendere cento Maserati e cento Mercedes in diciotto secondi”: non sono dati e possibilità che il nostro Paese può permettersi di rifiutare. Ed infatti, una già non risalente Convenzione bilaterale garantisce la condizione di reciprocità per gli investimenti nei rispettivi Paesi. Che poi questa reciprocità effettivamente sussista (e che – ad esempio – un cittadino italiano possa essere socio unico di una società con sede in Cina) è un problema da rimandarsi ad altra sede.

La Convenzione di cui sopra, firmata a Roma nel 1985 e ratificata nel 1987 nasceva, plausibilmente, da parte italiana, nella speranza di esportare e delocalizzare. A distanza di trent’anni il mondo si è invertito e quella che era la quinta potenza industriale è ora diventata terra d’insediamento per laboriosissimi cinesi qui divenuti imprenditori: circa settantamila, secondo gli ultimi dati, con un flusso di denaro verso la madre patria che supera il miliardo di euro l’anno (in calo, dopo essere stato, in precedenza, anche del doppio). Ovviamente non mancano però anche i problemi. I recenti scontri a Prato a seguito dei controlli delle forze dell’ordine in magazzini cinesi hanno riacceso i riflettori su una presenza silente ma sempre più massiccia, con zone di opacità su cui anche il Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi si è espresso in maniera assai netta, dichiarando che “Oggi stimiamo che si continua ad evadere almeno un miliardo di euro all’anno“.

L’aspetto tuttavia da non dimenticare è che, per tutti ma sopratutto per Pechino, politica e commercio non procedono mai separatamente. Lo dimostra l’interventismo nell’area del Pacifico, dove ogni accordo e aiuto convenuto con i vari piccoli (e poveri) stati insulari (si veda il caso Vanuatu e, spostandoci un poco, Grenada) è subordinato al proprio riconoscimento internazionale a danno di Taiwan (o più diplomaticamente, Repubblica di Cina). Lo testimoniano altresì gli interessi in Africa, dove dagli investimenti si è passati in breve ad esercitazioni militari (seppur di pace, in Mali) ed interventi di lotta alla pirateria (nel golfo di Aden).

Il tema non è banale ma giunge il momento di chiedersi cosa vuole e può fare l’Italia in questa vicenda che non può transigere da una complessiva valutazione del rapporto con la Cina. Sicuramente in questo momento Pechino può rappresentare un importante mercato per i nostri prodotti e una fonte di recupero per l’intera economia tricolore. Come in tutti i rapporti con un partner più forte (perchè la Cina è economicamente, militarmente, politicamente più forte di Roma) è necessaria tuttavia prudenza da un lato e capacità dall’altro di cogliere le opportunità che emergono. Non ritengo opportuno per il nostro Paese disconoscere apertamente la decisione della Corte dell’Aja appiattendosi sulle posizioni di Pechino: pacta sunt servanda. Di certo, invece, si può approfittare del momento – che pare porre un freno giuridico ed anche politico all’espansionismo cinese – per rivedere – in comunione d’intenti – i trattati in essere, trovare la piena reciprocità in sede di investimenti, convenire un pieno rispetto delle regole – da parte di tutti, in Italia – individuare i meccanismi migliori per combattere fenomeni di evasione fiscale e sfruttamento del lavoro.

Le incomprensioni, ed il razzismo, si nutrono in primis di buonismo, che non può trovare cittadinanza nelle scelte giuridiche e politiche. La farfalla delle isole Spratly, battendo le ali, spinge a Roma il vento del cambiamento, perché anche i rapporti tra Stati necessitano di nuovi passi.

Fabio Cosenza

Notaio

0 commenti