E’ a San Giovanni Battista predicatore nei pressi del fiume Giordano che i Vangeli ricollegano la celeberrima frase “vox clamantis in deserto” a descrizione della scarsa fortuna che la sua opera stava raccogliendo. Senza volere ricollegare la mia figura – e quella di ben più autorevoli.. – al figlio di Zaccaria ed Elisabetta, e neppure l’Italia – seppur arsa dalle temperature estive – al Medio Oriente, una certa amarezza, nell’introdurre l’analisi che segue, purtroppo non può mancare.
Il tema è quello delle ricorrenti e più o meno recenti riforme (o presunte tali) della giustizia che hanno introdotto strumenti cosiddetti deflattivi del contenzioso. Mediazione civile, divorzio breve, negoziazione assistita: tanti nomi e diversi istituti con il solo – dichiarato – obbiettivo di ridurre procedimenti e carico delle aule di giustizie. Che cosa è veramente successo?
Tre recenti fonti – di diversa natura ed autorevolezza e che solo ai meno attenti possono apparire distanti – aiutano ad una valutazione sul punto. Mi riferisco – in particolare – alle statistiche pubblicate dal Ministero della Giustizia circa l’andamento delle mediazioni civili, un illuminante articolo del prof. Carlo Rimini su La Stampa che ben illustra il flop del divorzio breve e l’intervista in data 16 luglio su Il Fatto Quotidiano a Piercamillo Davigo.
Le statistiche – nonostante il tentativo del Guardasigilli di nascondere la polvere sotto il tappeto – certificano come nel 2016 vi sia stato un calo della mediazione assistita a fronte di un aumento dei “successi”. Il dato – tuttavia – più interessante – e proprio quello del rapporto fra procedure ed esiti positivi – permane ad essere basso in maniera imbarazzante: appena l’11%, con un tasso di crescita – negli ultimi tre anni – di un tanto modesto quanto imbarazzante 2%. Nel mentre calano gli organismi di mediazione, diminuiti dai 100.000 del 2012 ai poco più che 20.000 attuali. La ragione viene trovata nel meccanismo di formazione dei mediatori, divenuto più complesso, con la scontata chiosa del “meno mediatori, dunque, ma più professionali e competenti“ (e sul punto potremo tornare). La stessa Commissione Alpa – audita dal Ministero – ha certificato come 125 ispezioni svolte abbiano condotto alla chiusura di metà dei soggetti controllati, dato di cui non si può evidenziare la gravità, se riportato su base nazionale.
Passando al divorzio, il prof. Rimini certifica con i numeri il fallimento dei nuovi istituti, evidenziando come fra 2014 e 2015 vi è stato addirittura un aumento delle procedure giudiziali e la negoziazione assistita raccoglie un misero 6,2% del totale delle separazioni, coprendo una quota che in verità prima era di competenza del – già rapido – meccanismo consensuale. Di breve, nel nuovo divorzio, non vi è quindi nulla e l’auspicio del cattedratico – pienamente condivisibile – è di “introdurre strumenti la cui efficacia è già stata sperimentata all’estero, primo fra tutti l’arbitrato familiare, cioè la possibilità per i coniugi di incaricare un arbitro per dirimere la loro controversia” (cit.).
Infine, Piercamillo Davigo, da poco ex-presidente dell’ANM, fra i vari temi trattati, ricorda incidentalmente l’ipocrisia degli interventi in materia di anticorruzione – con un’attività di prevenzione da parte dell’ANAC che rischia di essere insufficiente – e durata delle indagini penali, per cui si è introdotta un’artificiosa avocazione da parte di Procure Generali comunque sotto-organico. La vera criticità della giustizia – infatti – è data dalla mancanza di personale – togato e di cancelleria – e strumenti che possano adiuvare i giudici nell’attività d’indagine, in primis in sede di assunzione delle prove.
Ma riportiamo il tutto “ad unum“. L’affermazione “meno mediatori ma più competenti” nasconde la scoperta dell’acqua calda. E i dati che vedono metà dei soggetti controllati chiusi certifica come il livello sia ancora drammaticamente modesto. Sul punto la percentuale – infima – di successi chiude ogni discorso: se la mediazione fosse veramente così ben condotta e così solidamente strutturata le risoluzioni sarebbero decisamente più alte. In verità così come nel calcio una serie A a venti squadre tradisce un tasso tecnico insoddisfacente, nel mondo del diritto (e non solo) l’unico modo per avere operatori qualificati è..selezionarli. Un numero chiuso che garantisce concorrenza in sede formativa, selezionati concorsualmente in via trasparente (e non con un corso di 50 ore), soggetti a controlli periodici che ne mettono a rischio la carriera, radicati sul territorio e dotati di naturale terzietà: qualcuno ha detto notai? Il ragionamento è esattamente riproducibile in sede di separazioni e divorzi, dove l’auspicio del prof. Rubini circa l’introduzione di sistemi d’arbitrato non può che avere la medesima risposta. In tutto questo è evidente come la magistratura – da sola – oggi fatichi. E i concorsi – finalmente banditi – per giudici e cancellieri sono solo populismo, in quanto fra correzioni (e ricorsi..) passeranno anni prima di riempire i buchi d’organico, con l’arretrato che continua ad aumentare. Il notariato può dare un contributo in tal senso, facendosi carico – in materia civile – dei processi pendenti e intervenendo – ovunque – come ausilio per una più celere assunzione dei mezzi di prova, tema già trattato. Per quanto riguarda – invece – la lotta alla corruzione la sola ANAC del pur bravissimo Raffaele Cantone non può bastare: l’attività di prevenzione deve essere ampliata nel mantra della maggiore trasparenza e certificabilità dei meccanismi selettivi.
La riflessione in questa sede offerta conduce come sempre a due distinti auspici finali.
Da un lato l’invito al legislatore ad agire, modificando una riforma che mostra fin da subito enormi crepe. Non si vuole – lo sottolineo – qui demonizzare il ruolo dei mediatori e neppure l’operato dei tanti avvocati – sicuramente bravi – impegnati nel settore. Ma è evidente che occorra una svolta in senso maggiormente qualificante e di terzietà a beneficio della giustizia ed anche del mondo forense. In questo solco dovranno anche inserirsi anche le iniziative di riduzione del numero totale degli avvocati e della previsione di un equo-compenso che escluda dal mercato i soggetti che – a danno di tutti – (de)qualificano la loro professione solo in ottica di risparmio economico. Non escluderei neppure – e lo dico consapevole dell’ostilità di gran parte del notariato sul punto – ad una valutazione del ruolo del mediatore nel contesto del clerk – figura di origine francese di ausilio al Notaio, con cui collabora e che può sostituire in determinate circostanze.
Dall’altro – invece – il consiglio al privato, consumatore o impresa, di anticipare i tempi lunghi delle riforme e gestire ora le sfide e i rischi della normativa. La scelta del meccanismo conciliativo e dell’organo di mediazione sono un primo passo – da disciplinare anche nell’eventuale sede contrattuale – da non sbagliare. Ma soprattutto lo strumento dell’atto pubblico quale titolo esecutivo può rappresentare l’elemento determinante per ridurre durata e costi dei possibili contenziosi. Anche ora – in breve – gli strumenti non mancano, e spetta solo a ciascuno di noi decidere con quali certezze affrontare il domani.
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