Nella quotidianità della mia professione capita spesso che i clienti mi chiedano consigli circa gli istituti di credito cui rivolgersi per un mutuo oppure una valutazione sulle condizioni che hanno ottenuto dalla banca. Io evito di indirizzare verso uno od altro operatore del mercato (tradirei i miei obblighi di equidistanza e trasparenza), limitandomi eventualmente a raccontare le mie personali esperienze (non tutte le banche sono uguali, e neppure tutte le filiali) e ricordando sempre di leggere con attenzione la pagina del sito dedicata proprio ai mutui, per avere una prima indicazione circa gli aspetti cui prestare immediata attenzione.
Negli ultimi giorni – in particolare – l’attenzione di non pochi clienti è rivolta al caso CARIGE e ho ricevuto numerose richieste (sia da già correntisti che da potenziali mutuatari) di chiarimenti circa l’effettivo rischio che corre chi intrattiene rapporti commerciali con l’istituto genovese nonché sulle possibili evoluzioni (particolari e generali) della situazione.
Procedo quindi in questa sede ad una mia personale analisi, con una premessa metodologica. Non mi interessa (né voglio offrire) un giudizio politico sulla soluzione offerta dall’esecutivo né indirizzare eventuali scelte dei clienti dell’istituto. La mia unica finalità è presentare una ricostruzione dello scenario che possa essere d’aiuto per meglio comprendere l’attuale situazione, soccorrere i singoli – magari non esperti – nelle loro valutazioni e tentare di capire cosa ci aspetta e dove potremmo andare.
Prima però di parlare di oggi (e di domani) è necessario, come sempre, partire da ieri e capire da dove nasce l’attuale crisi di CARIGE. L’istituto con sede in Genova (CARIGE infatti è acronimo di CASSA DI RISPARMIO DI GENOVA E IMPERIA) si affaccia alla ribalta nazionale sotto la gestione Giovanni Berneschi (amministratore delegato e poi presidente), iniziata nel 2000, che – grazie ad una serie di acquisizioni – la porta ad essere nel 2010 fra i primi istituti nazionali. La gloria dura però poco e già nel 2013 Banca d’Italia contesta una gestione poco limpida dei finanziamenti concessi ad importanti clienti; l’anno dopo un’inchiesta ne travolge i vertici (Giovanni Berneschi, indagato, sarà condannato in appello nel 2018 a conferma della decisione di primo grado) e i bilanci (già in difficoltà dal 2012) iniziano a collezionare perdite consistenti. L’unica strada è la ricapitalizzazione, che fa subito una vittima eccellente, la Fondazione CARIGE, storico dominus dell’istituto che finisce per perderne il controllo. Nel 2015 si affaccia sulla scena il nuovo uomo forte della banca, l’imprenditore Vittorio Malacalza, che giunge a detenerne oltre il 20%. Se da un lato il nuovo azionista garantisce a CARIGE i soldi di cui necessita, dall’altro inaugura un rapporto conflittuale con il management (il primo a salutare è il presidente Cesare Castelbarco Albani, cui viene addirittura mossa un’azione di responsabilità da cui uscirà limpido), gli altri soci e gli advisor, il tutto mentre la BCE è ormai intervenuta e continua a imporre svalutazioni e cessioni dei crediti non performanti (i famosi NPL) e nuove iniezioni di denari. Si giunge a fine 2018 quando a fronte dell’ennesima richiesta di aumento di capitale Vittorio Malacalza (che negli anni ha speso 450 milioni che ad oggi ne valgono 25) dice no, portando alle dimissioni dell’organo amministrativo e al commissariamento dell’istituto da parte della BCE.
Siamo così ad oggi, con il Governo che l’8 gennaio promulga un decreto legge (n. 1/2019) con cui entra nell’operazione di salvataggio della banca. Il provvedimento dell’esecutivo, pubblicato in medesima data in Gazzetta Ufficiale e che dovrà essere convertito dal Parlamento (ma sul punto non vi saranno sorprese) è strutturato secondo due pilastri fondamentali.
In primis, lo Stato può concedere la propria garanzia sull’emissione di nuove obbligazioni CARIGE fino ad un massimo di 3 miliardi di euro ed entro il termine del 30 giugno 2019. La richiesta dovrà ottenere l’approvazione anche dell’Unione Europea per non rischiare la contestazione di rientrare in ipotesi di “aiuto di Stato” e dovrà altresì essere accompagnata da un piano di ristrutturazione predisposto dai commissari.
In subordine e come extrema ratio il decreto prevede altresì la possibilità che a fronte di una crisi di liquidità e mancanza di investitori il Ministero dell’Economia e delle Finanze sia autorizzato a sottoscrivere nuove azioni CARIGE (e quindi partecipare all’aumento di capitale) nel limite di 1 miliardo di euro e sempre entro il 30 giugno 2019.
Nelle aule della politica si è subito contestato come il nuovo decreto sia una fotocopia (lettera per lettera) del precedente n. 237/2016 varato dal Governo Gentiloni per intervenire su CARICHIETI, CARIFERRARA, BANCA ETRURIA e BANCA MARCHE. L’osservazione è corretta ma scontata, essendo medesime ed immutate le regole europee entro le quali l’esecutivo (attuale e precedente) deve muoversi.
Ci sono tuttavia due importanti differenze che è necessario rimarcare.
La prima concerne la specificità del nuovo provvedimento; mentre il precedente era genericamente rivolto al settore bancario, l’attuale evidenzia chiaramente come il problema sia CARIGE e lì si voglia intervenire. E’ un evidente formale mutamento d’approccio, che lascia intendere con il comparto del credito in Italia non sia nel complesso malato ma abbia singole criticità in corso di circoscrizione e di risoluzione.
La seconda investe la tempistica. Con le quattro banche di cui sopra si è intervenuti “a buoi ormai scappati” e a pagarne le conseguenze sono stati – nel contesto delle nuove regole europee – soprattutto i risparmiatori, travolti dalla crisi di fiducia che ha sconvolto gli istituti. Nonostante la garanzia statale fu impossibile trovare nuova liquidità sul mercato e si dovette ricorrere alla “condivisione degli oneri” imposta da Bruxelles, facendo pagare il salvataggio ad azionisti e obbligazionisti. Il problema infatti non si ripropose con i due salvataggi successivi, quello di Monte dei Paschi di Siena (2016/2017, più simile a CARIGE, come vedremo) e delle banche venete (POPOLARE DI VICENZA e VENETO BANCA, 2017), dove l’esecutivo si attivò con celerità conoscendo però esborsi non banali.
Oggi, per CARIGE, lo scenario pare diverso. Il tempestivo intervento dell’esecutivo (che aveva – pare – già sul tavolo da mesi il provvedimento) dovrebbe evitare che si diffonda il panico dando la possibilità ai commissari di trovare nuove risorse attingendo sia ai vecchi azionisti che a potenziali nuovi. La prima urgenza è rimborsare il prestito da 320 milioni concesso dal Fondo Interbancario al non banale tasso del 16%; plausibilmente si andrà verso una rinegoziazione. Successivamente, dopo le elzioni europee, ne verrà richiesto un altro sfruttando la garanzia statale (a condizioni ancora migliori) oppure si tenterà la strada dell’aumento di capitale. In quest’ultima ipotesi l’intervento del Tesoro (e quindi l’ingresso del MEF nel capitale della banca) ci sarà se e solo non compariranno investitori all’orizzonte e – soprattutto – non si sarà trovato un altro istituto per un’operazione di fusione o di cessione (si parla di un interessamento di UNICREDIT).
in breve, al momento la crisi CARIGE pare risolta (o almeno circoscritta), in quanto il decreto del Governo ha chiarito come lo Stato è pronto a scendere in campo a difesa dell’istituto (e dei suoi correntisti) fermando il vero problema, l’assenza di fiducia, che rischia di travolgere l’intero sistema bancario.
Si può in particolare evidenziare un’oscillazione nell’approccio dello Stato (della classe politica?) alle crisi bancarie che in questi anni il nostro Paese ha conosciuto. Con le quattro banche (Etruria, etc..) si sono puramente applicate le regole di Bruxelles (“ce lo chiede l’Europa”, cit.), mandando al macello i nostri risparmiatori. Con MPS si dichiarò subito (dicembre 2016) la volontà di procedere ad una ricapitalizzazione precauzionale, con il Tesoro che (luglio 2017, ottenuto il via libera dalla Commissione Europea) entra nel capitale sociale e liquida i vecchi obbligazionisti. In Veneto, infine, si lascia tutto ai privati, consegnando per un euro (sic) i due istituti ad INTESA SAN PAOLO, con un’aggiuntiva iniezione di liquidità pari a circa 5 miliardi di euro.
Oggi si propone un modello diverso, in cui non pagano i piccoli risparmiatori, il Tesoro non entra subito in gioco e neppure si finanzia il mercato affinché si “accolli” il problema. Intravedo un approccio più ponderato, in cui lo Stato si presenta al tavolo per bloccare la crisi di fiducia (che, ripeto, è il vero problema in ipotesi di criticità bancarie), anticipa una disponibilità a dare proprie garanzie nel contesto dell’opera di risanamento (affidata a tre commissari nominati dalla BCE e non da Roma) e attende che gli operatori del settore possano impegnarsi.
Non possiamo dire se funzionerà, anche se il limite temporale è limitato (giugno 2019) quindi la nostra curiosità avrà non lontana soddisfazione. Di sicuro ad oggi sembrano diversi i costi: se per le quattro banche (ETRURIA, CARICHIETI, CARIFERRARA, MARCHE) lo Stato non ci ha messo un euro (ad eccezione dei rimborsi in essere) però decine di migliaia di cittadini ed interi territori sono finiti in totale crisi, per MPS la minusvalenza delle azioni del Tesoro ad oggi è a quota 3,4 miliardi di euro e per le Venete (come scritto) l’esborso è stato di 5 miliardi euro, il massimo dell’impegno che il decreto legge n. 1/2019 prevede è di 1 miliardo di euro (per la ricapitalizzazione) e di 3 miliardi di euro per le garanzie. In breve, anche nello scenario peggiore i danni dovrebbero essere limitati rispetto al passato.
Ma se tutto questo basta per l’oggi, sarà sufficiente per domani e per le possibili prossime crisi? La mia personale risposta è no. E’ necessaria un’ulteriore evoluzione dei meccanismi di salvataggio dei nostri istituti che aggiorni sia l’attività precedente di prevenzione che quella eventuale successiva di cura.
E’ evidente che se tante banche sono entrate in crisi non vi è stata da parte dell’organo preposto una seria vigilanza. La prima colpevole è quindi Banca d’Italia che non è stata puntuale nell’espletamento della propria istituzionale attività ispettiva. E’ quindi necessario valutare anche in quella sede responsabilità, rivederne l’operato e – a titolo esemplificato – iniziare a cassare certe attività diverse – che l’allontano dalla propria funzione unica. Che via Nazionale riprenda – e bene! – a tutelare i correntisti italiani prima di fare altro.
Vi è altresì un tema di inadeguatezza e promiscuità della classe dirigente (rectius: con incarichi apicali d’amministrazione) degli istituti di credito italiani. E’ manifesta l’incapacità di gran parte del management nel gestire le banche e come la sovrapposizione di ruoli (chi siede nei CDA spesso riveste incarichi in società che ricevono finanziamenti) abbia portato ad un enorme conflitto di interessi. Ad avere alimentato il mare magnum dei NPL non sono stati infatti i piccoli mutui per acquistare le prime case, ma gli enormi prestiti dati a grandi clienti (spesso azionisti delle banche e loro prossimi) per operazioni irrealizzabili. E’ quindi doveroso – a fronte della manifesta incapacità del mercato ad autoregolarsi – che la politica intervenga con una più rigida disciplina in tema di requisiti per rivestire incarichi ai vertici degli istituti nonché di stringenti incompatibilità; stop alla collezione di poltrone.
E’ inoltre ormai necessario accettare l’intervento dello Stato in economia superando le visioni turboliberiste degli ultimi anni. La mano invisibile di keynesiana memoria non esiste o, meglio, può esistere solo se al termine di quel braccio vi sia la Res Publica con le sue istituzioni. In scenari di crisi che possono minare la crescita del Paese è necessario che il Governo non fugga dalle proprie responsabilità, entri in campo e possa anche diventare azionista delle realtà in difficoltà; è accaduto e accade all’estero (USA, Francia, Germania, etc..) non deve essere un tabù in Italia. E anche laddove si raccoglierà una minusvalenza (è il caso plausibile di MPS, le cui azioni andranno necessariamente cedute nel 2021), il costo per la collettività sarà stato sicuramente più basso che nell’ipotesi di inerzia.
La disciplina dei NPL è altro tema che impone una revisione, anche lottando sul punto con Bruxelles, che ha costretto i nostri istituti a svendere in rapidità i crediti deteriorati. Per chiarire l’assurdità della soluzione dettata dall’Unione Europea ricorro ad una metafora “medica”. Imporre di vendere a breve i NPL è come trovarsi innanzi un obeso che vuole dimagrire è suggerirgli di tagliarsi parti della pancia; potrebbe funzionare ma più plausibilmente porterà a una non banale emorragia. La soluzione più ragionevole (e seguita da chiunque, più o meno prestante, si mette a dieta) è di procedere con costanza nel tempo, fra attività fisica e nuovo regime alimentare. Lo stesso deve accadere per i nostri istituti, magari utilizzando strumenti statali (si veda il Fondo Atlante, si ricordi la possibilità di coinvolgere CASSA DEPOSITI E PRESTITI) e sicuramente prevedendo un’attenta indagine in tema di responsabilità per evitare il ripetersi di certi fenomeni distorsivi già descritti. Ma il taglio netto era già oggetto di puntuale contestazione nel “Mercante di Venezia” di Shakespeare, ed oggi ci troviamo Bruxelles nel ruolo di Shylock.
Infine è evidente come – complice la crisi – il solo sistema bancario non è più sufficiente a sostenere la richiesta di finanziamenti, soprattutto del mondo imprenditoriale. In questo senso la nuova strada è già tracciata, e passa obbligatoriamente per l’equity crowfunding che rimette veramente al mercato (e al singolo piccolo investitore) la scelta su quali progetti sostenere con i propri risparmi. E’ quindi il tempo di non avere paura di questo nuovo istituto e anzi potenziarlo, aumentando l’importo delle singole operazioni finanziabili (ora 8 milioni di euro), prevedendo ulteriori detrazioni, coinvolgendo maggiormente le partecipate pubbliche ed abbassando il limite necessario di partecipazione degli investitori professionali (ora 5%). Queste posizioni sono – in parte – presenti nella Finanziaria 2019, che rappresenta sicuramente un ottimo inizio ma il mio invito è verso un’ulteriore spinta, nella previsione che vedrà la piccola-media impresa sempre più rivolta verso lo strumento della raccolta on-line e le banche tradizionali declinate in una versione più “personale” e “famigliare.
Ma per concludere torno alla domanda iniziale da tanti rivoltami: dobbiamo avere paura di essere clienti di CARIGE? Non posso – né voglio – dare consigli commerciali ma non è congruo che ne esca (dopo tante righe) neppure senza battute. E quindi se da un lato ricordo come Mark Twain ci abbia insegnato che “ci sono due casi in cui l’uomo non deve speculare in borsa: quando non ha soldi e quando i soldi ce li ha“, dall’altro calcolo che fra Arezzo (sede di Banca Etruria) e Genova ci sono circa 300 km e questa volta la distanza pare proprio tanta.
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