Due recenti notizie – non collegate ma che in verità investono il medesimo ambito giuridico, quello della famiglia – offrono lo spunto per tornare su un tema che non smette, purtroppo, di alimentare quotidiane preoccupazioni: la modesta capacità del nostro legislatore e la conseguente necessità, per il cittadino, di un’estrema attenzione quando vuole approfittare delle tante (troppe) novità normative.
Ci si riferisce, in particolare, alla sentenza del TAR Lazio 7 luglio 2016 n. 7813, che ha dichiarato illegittima e annullato la circolare n. 6 del 24 aprile 2015 del Ministero dell’Interno, con cui si interpretava l’art. 12 della legge 10 novembre 2014 n. 162, nonché alle criticità emerse in sede di unione civile, in seguito all’aggiunta, al proprio, del cognome del proprio partner. Ma andiamo con ordine.
La circolare del Ministero dell’Interno oltre un anno fa chiariva come l’art. 12 della legge n. 162/2014 andasse interpretato nel senso di permettere, in sede di separazione o divorzio davanti all’Ufficiale dello Stato Civile, la previsione del classico assegno di mantenimento. La circostanza alimentava più di una perplessità – anche perché la legge stessa sembrava nettamente escludere, per questi procedimenti “rapidi”, l’inserimento di accordi patrimoniali – ma la politica corre più del diritto e si doveva alimentare una narrazione che ormai urlava “divorziare costa meno e non serve l’avvocato”. Fortunatamente proprio l’avvocatura, con l’Associazione Italiana degli Avvocati per la Famiglia e per i Minori (AIAF), ha deciso di ricorrere al TAR su una vera e propria forzatura interpretativa, ottenendo una pronuncia netta che respinge le avventate fughe in avanti oltre il diritto. La ratio valorizza l’impossibilità, per l’Ufficiale di Stato Civile, di valutare il merito di un accordo patrimoniale, che si può altresì concludere senza l’assistenza di un legale. Gli ex-coniugi si ritrovano pertanto abbandonati a se stessi, con la parte debole priva di ogni minima tutela; la stessa “libera scelta” per un procedimento del genere rischierebbe di nascondere una realtà popolata da prevaricazione e violenza domestica.
La seconda questione nasce da una pluralità di casi segnalati da alcune associazioni che vedono la necessità, laddove in sede di unione civile si intenda aggiungere il cognome del partner al proprio, di aggiornare un mare magnum di rapporti a seguito dell’attribuzione di un nuovo codice fiscale. Quest’ultimo, infatti, viene modificato dal cognome aggiunto, comportando variazioni a cascata nei rapporti bancari, pubblici registri, documenti, et coetera. Il problema pare nascere dalle norme transitorie a cui i Comuni hanno cercato di adeguarsi in maniera forse fin troppo puntuale: con l’unione civile cambiare cognome diventa infatti più semplice che per qualunque altro cittadino. La medesima AIAF in questo caso è giunta a parlare di discriminazione verso i rapporti omosessuali, ma non mi ritrovo in questa ricostruzione: semplicemente, anche qui la politica per accontentare la tigre dell’opinione pubblica che cavalca lasciando però sempre più affamata, è corsa troppo avanti. Nei miei interventi sulla materia e sulle relative nuove norme avevo già indicato le fin troppe criticità dovute ad un legislatore frettoloso ed ora i gattini ciechi iniziano a camminare per strade, registri e municipi del Paese in attesa di caracollare in Tribunale (ove precipitano – con spese a carico di tutti – le conseguenze delle leggi mal scritte).
Una reductio ad unum si impone ed è anzi naturale; entrambe le vicende nascono dalla medesima situazione di fretta e – forse – scarsa competenza in materia. La famiglia è stata oggetto di una recente eccessiva voracità giuridica da parte di tutte le parti in causa (chi sposato lo era già; chi non lo era e voleva diventarlo; chi non poteva; chi ne voleva uscire; chi ci campava con provvedimenti e ricorsi; chi ci recuperava voti; chi ambiva a nuove competenze; etc..) e questi ne sono i risultati. Dunque, come sempre, ora cosa fare? La risposta è sempre duplice, singolare e generale.
Il privato cittadino deve valutare con estrema attenzione il percorso che intraprende (che sia di costituzione di una nuova famiglia che di scioglimento di una vecchia), affidandosi con fiducia ad un professionista di riferimento. Nel contesto di una separazione, in particolare, è chiaro che il metodo “fai-da-te”, come già recitava una fortunata pubblicità, sia “ahi ahi ahi”. L’ausilio di un legale è sempre opportuno – anche se non vi è particolare animosità – ed il mero accordo in Comune è ormai da ricondurre ad ipotesi più “di scuola” che eccezionali, e forse la negoziazione assistita si impone come la strada migliore. Qui il Notaio non è sempre necessario (solo se vi sono trasferimenti che importano pubblicità nei pubblici registri) ma una figura terza che faccia luogo di Autorità Giudiziaria e Pubblica, con le esclusive capacità in tema di efficacia esecutiva e obblighi di conservazione documentale, garantisce quella certezza e serenità che in un momento fondamentale della propria esistenza non dovrebbe mancare.
Il legislatore, invece, non può che rimettere mano all’intera materia partendo da quello che – a parere del sottoscritto e ormai di molti – deve essere un principio irrinunciabile: non si può sostituire il controllo del Giudice con albi e dipendenti comunali. Questa tendenza folle sta già causando costi diretti (pubblici uffici preposti) ed indiretti (cause, come quella su cui si è espresso il TAR) che il Paese non può permettersi. Mentre, da un lato, si insiste nel santificare la cosiddetta spending-review tagliando (o fingendo di tagliare) enti e dipendenti, dall’altro si scrivono norme che minano l’efficienza della macchina statale e locale. La soluzione, anche qui, è già presente e banale, con una valorizzazione del ruolo del Notaio, sostituto naturale dell’Autorità Giudiziaria. Inutile aggravare i Comuni e gli Ufficiali di Stato Civile: unioni e separazioni al vaglio del controllo notarile, con l’obbligo di assistenza di un legale (proprio per mantenere la dicotomia fra due figure distinte ed entrambe importanti per il corretto funzionamento della Giustizia), ed albi informatici facilmente consultabili. Si parla tanto – ed ho già scritto – di block-chain: proviamolo anche qui, senza paura, perché chiunque conosca il diritto e i tanti pregi del nostro sistema (copiato all’estero, dagli Stati Uniti alla Cina), sa che l’informatica può agevolare i profili formali, ma non può sostituire il controllo sostanziale, che lo Stato non deve abdicare ma può semplificare affidandolo a Pubblici Ufficiali formati nel segno della Res Publica.
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