Effetto Trump e cosa può cambiare fra diritto, società ed economia

da | 13 Nov 2016 | politica

Non è retorica affermare che mercoledì 9 novembre il mondo si è svegliato sorpreso (chi euforico e chi amareggiato) e probabilmente cambiato. La vittoria – inaspettata ed impossibile per molti – dell’immobiliarista Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca apre scenari inediti nella politica statunitense e di conseguenza mondiale, in un meccanismo che è stato già descritto come risposta della (non più) classe media alle politiche alle scelte elitarie degli ultimi vent’anni. Ad oggi, gli scenari apolicattici di chi ipotizzava crolli di mercati ed invasioni di cavallette a seguito di una possibile vittoria di Trump (il premio Nobel Paul Krugman profetizzava: “Se la domanda è quando si riprenderanno [i mercati dall’eventuale successo dell’immobiliarista], la risposta immediata è mai“; nel mentre New York vede rispetto a mercoledì un +3,8%) non si sono verificati. Risulta però opportuno avanzare – anche a costo di essere smentiti – previsioni di come Donald Trump – e la sua azione – impatterà su diritto, economia e politica estera, in breve i tre campi strettamente connessi ove, in diversa maniera, si svolge la nostra attività notarile e di consulenza. L’unica certezza, ad oggi, è che sicuramente il nuovo presidente USA condizionerà i prossimi due anni (almeno, cioè, alle elezioni di metà mandato): solida maggioranza alla Camera e al Senato, netto vantaggio nel numero dei Grandi Elettori, un giudice della Corte Suprema da nominare.

Il settore su cui vi è maggiore incertezza è quello economico. In campagna elettorale Trump si è descritto come il paladino della classe media (bianca) impoverita da globalizzazione, nuove tecnologie, delocalizzazione delle fabbriche. A tutela (e recupero) dei posti di lavoro persi ha anticipato la revisione (se non addirittura il superamento) dei trattati di libero scambio in essere e l’abbandono di quelli in programma, l’inserimento di dazi commerciali soprattutto nei confronti della Cina, un programma di incentivi all’economia che oscilla fra investimenti pubblici e detassazioni. E’ difficile prevedere quanto di tutto ciò possa effettivamente trovare realizzazione. Anche gli strali nei confronti dei grandi gruppi finanziari e loro vertici (banche d’affari e fat cats su tutti) che il neo-presidente non ha risparmiato in campagna elettorale non trovano una definita linea programmatica; temo che chi aspira ad un superamento del Gramm-Leach-Bliley Act, promulgato da un Bill Clinton a fine mandato nel 1999, ma promosso da un Congresso repubblicano, rimarrà deluso. Le prime indiscrezioni sui nomi di chi potrebbe occupare la casella del Tesoro (da Jamie Dimon di JP Morgan, passando per l’ex Goldman Sachs Steve Mnuchin, fino all’uomo d’affari Carl Icahn) confermano che i mercanti dell’alta finanza è plausibile continuino a rimanere nel tempio. Di certo è probabile – e già annunciata da molti commentatori – una svalutazione del dollaro nei confronti di euro e renminbi che avrà ripercussioni sul debito pubblico statunitense ma aiuterà l’export, nel tentativo di riequilibrare la bilancia commerciale e creare posti di lavoro.

In politica estera, invece, è universalmente ipotizzata una totale inversione di rotta rispetto alle ultime amministrazioni, con il possibile ritorno di un isolazionismo che a Washington non si vede dagli anni Venti del Novecento. Reputo tuttavia azzardato il paragone: dopo un secolo, nel nuovo mondo globalizzato, chiudersi nel proprio cortile di casa è arduo per chiunque ed irrealizzabile se si è la prima potenza planetaria. Più probabile che invece cambino gli scenari – anche geografici – di confronto. Innanzitutto, pare affacciarsi una nuova era di disgelo fra USA e Russia, con le già annesse polemiche di interferenze – anche informatiche – in campagna elettorale. La Siria di Assad, attuale più importante terreno di scontro, potrebbe essere il primo beneficiario, con il superamento di una rivalità che sul campo stava aiutando soltanto l’ISIS. In Libia, focolaio ancora aperto, verrà misurata la voglia di impegnarsi di Trump per riparare ai danni provocati, in diversa veste, dalla sua avversaria Hillary Clinton. La Turchia potrebbe dovere smettere di giocare ad una vera e propria politica dei due forni, corroborata da quella che è ormai – de facto – sul piano interno una dittatura; tuttavia nei mesi antecedenti le elezioni il neo-presidente ha manifestato il proprio netto disinteresse sul punto. Crimea ed Ucraina sono destinati a diventare problemi russi, con la fine del sostegno di Washington a discusse rivoluzioni colorate. I Paesi baltici, invece, già manifestano importanti timori, che scaturiscono dall’aver Trump definito la Nato in campagna elettorale come “obsoleta” e “costosa”. Ma davvero siamo prossimi alla fine dell’Alleanza Atlantica? Personalmente ritengo che il tycoon sia semplicemente disinteressato a tutto ciò che non sia economia (rectius: soldi) e Stati Uniti. L’affermazione di Jean-Claude Juncker (“ci vorranno due anni affinché Trump faccia il giro del mondo, che non conosce“) è pubblicamente folle ma non così infondata. La nuova amministrazione eviterà nuovi tavoli di confronto e si disimpegnerà dai focolai in essere, facendo anche qualche concessione alla Russia con cui i rapporti si normalizzeranno. La Cina potrebbe diventare il nuovo nemico, sulla spinta del confronto economico sempre più serrato, con quindi maggiore interesse – anche militare – all’area del Pacifico. In tutto questo, tuttavia, è opportuno non dimenticare due fattori. In primis, il vero artefice della politica estera statunitense sarà il nuovo Segretario degli Esteri (Robert ‘Bob’ Corker, senatore del Tennessee e presidente della Commissione Esteri del Senato, John Bolton, già ambasciatore Usa presso le Nazioni Unite, Jeff Sessions, senatore dell’Alabama: tutti conservatori ma con posizioni assai diverse): quando si avrà un nome si potranno avanzare valutazioni più precise. In secondo luogo, è bene ricordare come anche George W. Bush costellò la sua campagna elettorale ed inaugurò la sua presidenza sventolando il vessillo dell’isolazionismo; la storia è poi andata diversamente.

Trump sicuramente – invece – condizionerà diritto e società con due necessarie scelte a breve termine: Corte Suprema e Ministero della Giustizia. La prima vede un posto vacante dopo la morte – avvenuta il 13 febbraio 2016 – del giudice Antonin Gregory Scalia. Trump ha già annunciato che dopo il suo insediamento procederà alla nomina, che ricordo è a vita. Scalia era un conservatore di enorme acume giuridico, e la sua posizione sarà sostituita da un altro conservatore. Nel breve periodo non dovrebbero esserci enormi mutamenti (da oltre cinquant’anni si ha una maggioranza di giudici a cui è appuntata la spilletta rossa al bavero della giacca, e non vi è stato alcun ritorno ai secoli bui), ma se un altro membro della Corte dovesse lasciare l’incarico allora l’ago della bilancia potrebbe iniziare a pendere decisamente verso nuove posizioni. Nel caso è decisamente irragionevole tracciare scenari di compressione dei diritti fondamentali (rispetto di minoranze e orientamenti sessuali in primis), che ormai costituiscono un tassello inscindibile dell’alveo politico. E’ invece ipotizzabile immaginare una maggiore attenzione a posizioni (la tutela della maternità; il superamento delle quote riservate) in antitesi verso il relativismo dominante degli ultimi anni. Per il posto di Ministro della Giustizia è da tutti considerato il candidato più probabile l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani. In verità, a prescindere dal ruolo che ricoprirà (alla Giustizia, alla NSA, alla CIA) Giuliani avrà sicuramente un impatto notevole in molte scelte di Trump. Suo sostenitore fin dall’inizio della campagna, vicino anche nei momenti più difficili, l’ideatore della “tolleranza zero” avrà la possibilità di proporre le proprie idee in uno scenario nazionale. Da qui due dubbi: ciò che ha trasformato New York, salverà anche gli Stati Uniti (quasi 400.000 crimini ogni anno contro persone)? E il modello sarà esportato?

Giungendo ad una valutazione conclusiva, la vittoria di Trump e l’impatto che ne seguirà su economia, politica estera, diritto, vedono un unico grande sconfitto: l’Unione Europea. Gli investimenti, i dazi, la svalutazione del dollaro non colpiranno la Cina (che – prima creditrice del debito pubblico statunitense – ha notevoli armi di ricatto) ma il nostro Continente. Il vero nemico pubblico commerciale per gli Stati Uniti è infatti Berlino con il suo surplus commerciale; gli scandali Deutsche Bank e Volkswagen sono solo scaramucce rispetto ad un euro troppo forte nei confronti del dollaro che paralizzerà le esportazioni tedesche, e francesi, e italiane. Non è così lontano un aumento dei tassi d’interesse, con conseguenze a cascata per mutui e mercato immobiliare. La Nato non sarà smantellata, ma a noi alleati saranno richiesti maggiori contributi – economici, non militari – a sostegno dell’intera struttura. L’Unione Europea da anni ha “dimenticato” le spese militari e dovere tornare a fare fronte a questa necessità rappresenterà un brusco risveglio. Il canale preferenziale tra Mosca e Washington porterà all’isolamento continentale di Bruxelles; le sanzioni rimarranno un danno solo per le nostre imprese (soprattutto quelle italiane, che in Russia hanno storicamente un ottimo mercato) mentre i concorrenti d’oltreoceano occuperanno gli spazi che abbiamo abbandonato. Il disinteresse statunitense verso gli Erdogan, gli Assad, ma anche gli Orban e i Duda lascerà i rappresentanti diplomatici europei soli nell’opera di mediazione e contenimento. Senza il soft-power a stelle e strisce una politica estera comune è impossibile. La Corte Suprema cesserà di essere veicolo (soprattutto pubblicitario) di istanze nel contesto di “nuovi [presunti] diritti”, si pensi alla maternità surrogata; l’oltranzismo di una certa Europa sul punto rischierà di condizionare le relazioni tra le due sponde dell’Atlantico.

Le prime reazioni a caldo nel Vecchio Continente (Juncker, già citato; Martin Schulz, che già in precedenza aveva bollato la possibile vittoria di Trump come “un problema per il mondo intero” ora insiste dicendo che “lavorare con lui sarà difficile“) confermano come tutti a Bruxelles siano consapevoli di essere i primi sconfitti – e le prossime vittime – del mondo in cui lavorerà la nuova amministrazione americana. Commentando la vittoria del suo successore, Barack Obama ha tranquillizato tutti dicendo che il sole – il giorno dopo – sarebbe comunque sorto; nel mentre, forse, pare scendere la notte sulla burocrazia autoreferenziale dell’Unione Europea.

Fabio Cosenza

Notaio

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