Chi ha avuto studi classici – o più semplicemente, una cultura nutrita da un minimo di curiosità – sicuramente ricorda il Pelide, gli Atridi, gli Eraclidi e tutti i vari protagonisti di mitologia e storia greca ripetutamente appellati rinviando al nome paterno. Le madri – anche quando di importante lignaggio – avevano scarsa fortuna o addirittura – noto il caso di Aèrope – consegnavano ai posteri una pessima fama.
In Italia il patronimico non ha più fortuna (in Europa residua solo in Islanda) mentre prassi e poi legge (un combinato disposto di Codice Civile, R.D. 9 luglio 1939, n. 1238 e d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396) hanno dato dignità al solo cognome paterno quando si tratta – in presenza di figli riconosciuti – di trasmetterlo alla prole. Il meccanismo ad oggi (rectius: ieri..) consolidato vede ai figli imposto il cognome del padre; non solo, se anche il riconoscimento è successivo – addirittura a distanza di anni, magari da parte di un genitore poco presente – lo stesso può condurre inesorabilmente all’esito di cui sopra. Nel mentre, la possibilità di cambiare cognome (o semplicemente aggiungere quello materno, come previsto dal d.P.R. 24 febbraio 2012, n. 40) era devoluta ad un ricorso devoluto al Prefetto territorialmente competente. L’istituto, inizialmente limitato a ragioni gravi ed oggettive, grazie ad una giurisprudenza attenta alle istanze della società civile, espandere la propria sfera di utilizzabilità, giungendo a dare legittimazione anche ad richieste basate su motivi esclusivamente sentimentali. In tutto questo, infatti, la magistratura (che ormai – come più volte abbiamo visto – si fa carico di intervenire in tutti quei casi in cui il moderno legislatore, ignavo, poco capace e non direttamente toccato da interessi elettorali o personalistici, rimane inerte) aveva ripetutamente sollevato il problema del solo cognome paterno ai figli; già 2006 la Corte Costituzionale interveniva in materia chiedendo al Parlamento di intervenire. Ancora nel 2008 la Cassazione sollecitava – con una propria ordinanza – un eventuale decisione a Sezioni Uniti sul tema. Infine nel 2014 addirittura la Corte di Strasburgo – adìta da due coniugi italiani – statuiva condannando il nostro Paese. Davanti al “ce lo chiede l’Europa” il Parlamento – come prassi – non poteva esimersi e quindi, con sollecitudine, veniva presentato un disegno di legge che la Camera approvava immediatamente, lanciando poi la palla nel campo del Senato, dove, però, inizia a languire in Commissione Giustizia. Soliti problemi di navette dovuti al bicameralismo perfetto? No, semplicemente Palazzo Madama non ne capiva l’urgenza ai fini di un ritorno elettorale: sulla Cirinnà, ad esempio, si è corso a tempo di record.
In tutto questo è stata così nuovamente la magistratura a farsi carico della necessità di intervenire sul tessuto normativo italiano. In particolare, come ampiamente pubblicizzato, la Corte Costituzionale, lo scorso 8 novembre, ha “dichiarato l’illegittimità della norma che prevede l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa volontà dei genitori” (cit.). La decisione – già celebrata come storica – apre tuttavia la porta a valutazioni e problematiche che necessitano, nell’essere affrontate, tanta rapidità quanta puntualità.
In primo luogo, prudenza impone di attendere il testo della sentenza, con relativa motivazione, per considerare nel dettaglio i ragionamenti giuridici della Corte Costituzionale e quindi ponderare la conseguente azione legislativa. Il relatore è Giuliano Amato, i cui trascorsi politici sono noti, a prescindere dal giudizio complessivo sull’operato che in questa sede né interessa né rileva, e questo alimenta una moderata aspettativa circa un taglio di praticità che possa aiutare il percorso parlamentare nella strada della normazione.
A livello di attualità e cogenza, nell’inattività – forzata, fra la necessaria attesa delle motivazioni e l’attenzione dedicata solo alla propaganda referendaria – del legislatore, la pubblicazione della decisione della Corte in Gazzetta Ufficiale aprirà alla possibilità, per i genitori che ne hanno il desiderio, di recarsi innanzi all’Ufficiale di Stato Civile per chiedere l’aggiunta del cognome materno, rendendo obsoleto l’istituto del ricorso al Prefetto.
Solo tuttavia l’intervento del legislatore potrà definire un quadro in cui – ad un occhio non attento ma almeno sveglio – i profili di criticità proliferano ovunque si posi lo sguardo. Cosa accade, infatti, in caso di disaccordo tra i genitori? Chi ha (o avrà) più cognomi, quanti ne potrà trasmettere? Dopo l’aggiunta, cosa accade ai vecchi documenti? Il codice fiscale varia? E’ necessario aggiornare i pubblici registri? La decisione circa il cognome è disponibile e rimessa alla volontà – eventualmente preventiva – dei genitori? Alla prole sarà concesso – e come e a quale età e quante volte – modificare i cognomi ricevuti?
Alcuni di questi temi sono già stati affrontati dal disegno di legge del 2014 approvato alla Camera (ad es.: in caso di disaccordo si è proposto l’inserimento di entrambi i cognomi in ordine alfabetico; per chi ha più cognomi la trasmissibilità è limitata ad uno solo), che tuttavia prevedeva altresì un regolamento successivo da adottarsi entro un anno a mezzo d.P.R. per intervenire a livello di singoli adeguamenti normativi. Francamente, una soluzione che rischia di non rasserenare totalmente stante la complessità della materia. I punti che ho tuttavia sopra incidentalmente illustrato meritano un attento confronto da parte del legislatore, soprattutto al fine di evitare quella confusione che già abbiamo visto con l’approvazione frettolosa delle unioni civili. Volendo, come sempre, essere costruttivi, si suggerisce, per evitare un’opera di aggiornamento che può soltanto portare a refusi, di non modificare i codici fiscali. Ancora, la norma – di cui al decreto legge 31 maggio 2010, n. 78 – in materia di identificazione catastale andrà rivista e resa più flessibile, altrimenti si corre il rischio di paralizzare il mercato immobiliare. Più delicato il tema circa la disponibilità della decisione del cognome d’adottare, che rischia di sconfinare nel dibattito in tema di accordi prematrimoniali, vietati nel nostro ordinamento ma su cui la Cassazione inizia ad essere possibilista. Sconfina nel cinismo prevedere la possibilità della rinuncia al proprio cognome a fronte di un riscontro economico, ma il rischio è che una parziale apertura mitigata dal divieto di corrispettivi finisca esclusivamente per aprire le porte al “mercato nero” (la prassi che si sta diffonendo in tema di maternità surrogata insegna).
Su queste enormi criticità (ed altre ancora che sicuramente emergeranno con la quotidianità) si chiede un intervento non frettoloso ma puntuale del legislatore (non solo “fate presto”, ma soprattutto “fate bene”). Il ruolo del Notaio, ausilio dello Stato, pubblico ufficiale della Repubblica, può sicuramente contribuire a sgravare di incombenze una macchina burocratica sempre più affannata. Nel caso si preveda – un esempio su tutti – la disponibilità delle scelta del cognome da parte dei genitori, lo strumento dell’atto pubblico è di certo quello più sicuro (magari con una altrettanto pubblica tariffa, al fine di garantire un costo certo ed accessibile per il singolo che rappresenti anche un risparmio per la collettività). L’aggiornamento dei pubblici registri (Conservatoria ed Imprese) e la loro tenuta è un tema ancora più caldo a livello generale in cui si è già esposto come nuove tecnologie e notariato possano rendere l’Italia più rapida ed efficiente. Non so se è possibile avere questo; di certo – da patriota – è dovere chiederlo, per il bene della Repubblica. E complice la scadenza referendaria è forse anche opportuno iniziare a pensare – dopo esecutivi politici di basso cabotaggio, esecutivi tecnici di modeste qualità – ad un Governo istituzionale – con uomini dello Stato e per lo Stato – che si faccia carico di modernizzare il Paese nel solco di Costituzione e legalità.
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