Giulio Cesare divorziò dalla prima moglie – Pompea – dopo che l’amante di questa – Clodio – fu trovato in casa del marito vestito da donna. Lo scandalo provocò anche un processo (l’increscioso evento avvenne durante la festività per la Bona Dea) in cui però il futuro Dictaror non testimoniò contro il rivale limitandosi a dire – quando i giudici gli chiesero perché avesse ripudiato la consorte – che questa era sì innocente (e che quindi non l’aveva tradito) ma ciò non bastava: doveva anche essere – quale moglie di Cesare – al di sopra di ogni sospetto.
L’idiomatismo è divenuto di uso corrente nella lingua italiana e trova facile e continua applicazione. A Bologna, in particolare, può ben introdurre un confronto – assai aspro – che sta accompagnando il prossimo congresso locale del PD chiamato a rinnovare il segretario cittadino. I due protagonisti più in vista del dibattito sono Francesco Critelli, segretario uscente, ed il sindaco Virginio Merola, non in corsa per la poltrona ma assai critico nei confronti del primo.
La classica goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la proposta, avanzata da Francesco Critelli, di introdurre un divieto di due anni per gli ex-amministratori locali alla cessazione del loro mandato di avere incarichi in aziende – cooperative, partecipate e di qualunque genere – che hanno o hanno avuto legami con le amministrazioni da loro rappresentate. L’idea – sicuramente degna di nota – ha scatenato reazioni di vario genere, soprattutto negative, dalle più sfumate (lo sfidante alla segreteria Luca Rizzo Nervo ha parlato di non necessità di tali vincoli ed impossibilità di sospendere i diritti politici) alle più rabbiose, con lo stesso sindaco Virginio Merola che l’ha bollata come “idiozia pura” (cit.). Nel mezzo i diretti interessati, ovviamente in profondo disagio per il potenziale conflitto d’interessi, che – parole di Simone Gamberini, già sindaco PD di Casalecchio di Reno ed ora direttore generale della lega delle cooperative a Bologna – parlano di come sia “morta la politica” (cit.), oppure – la senatrice Francesca Puglisi – di “guerra fratricida” (cit.).
Non è questa la sede – né mio l’interesse – di entrare in una polemica interna ad un partito impegnato nel rinnovo del proprio segretario locale. E neppure – chiarisco – ho rapporti personali con alcuno dei soggetti coinvolti né sono impegnato a livello politico. Incidentalmente, e solo per approfondire il tema in vista di quanto intra, posso ricordare come quanto suggerito da Francesco Critelli sia già previsto per altre categorie di persone al servizio dello Stato, con formule diverse: ad esempio i magistrati che dalla politica tornano alle aule di giustizia devono cambiare distretto giudiziario, e sul tema sono – proprio ora – in discussione restrizioni ancora maggiori con divieti draconiani (e questo a fronte di appena 9 magistrati in Parlamento). E a fronte di ciò ben pochi – e di certo non i critici di cui sopra – hanno parlato di “sospensione dei diritti politici”. Ancora, leggere di “guerra fratricida” in un contesto che negli ultimi anni ha visto il mondo cooperativo travolto fra liquidazioni coatte amministrative, indagini a carico di propri rappresentanti di punta (già organici a partiti politici) per minacce a un sindaco dell’hinterland, condanne in primo grado per falso ideologico a margine di finanziamenti regionali concessi (tutto, si sottolinea, finito fra assoluzioni e archiviazioni: ma gli sms, le telefonate e le condotte e tutto quanto finito sulla stampa hanno lasciato non pochi strascichi e perplessità), alimenta i dubbi sull’effettiva distanza con la politica e su chi siano – effettivamente – i fratelli in lotta. Portare infine come esempio il mondo privato, ponendo come paragone un possibile ingresso di Alberto Vacchi – leader di Confindustria Emilia-Romagna – in politica e chiedendo se anche lui andasse applicato un limite del genere è sintomatico di scarsa lucidità: in questo caso è il corpo elettorale che – a priori – valuta il potenziale conflitto d’interessi e non che – a mandato finito – se lo ritrova “a posteriori” (termine più che azzeccato).
Alla luce di tutto ciò è evidente che un problema di distanza – anche formale, soprattutto visibile e materiale, il tutto seppure siamo tutti certi della totale correttezza di ogni interessato, passato, presente e futuro – fra mondo delle imprese (senza necessità di parlare di cooperative, non cooperative, quotate, partecipate: le regole e i problemi sono uguali per tutti) e politica si pone e deve essere affrontato. La proposta di Francesco Critelli non può che trovare la piena approvazione di chi vuole un mercato e un mondo produttivo più trasparente, più competitivo, con nessuna zona d’ombra ed – in conclusione – più adatto a fare crescere il Paese. La questione si sposta su come applicare un principio la cui utilità per l’intero sistema – anche alla luce, lo ricordo, con il confronto di quanto già accade per altre categorie – è innegabile.
Sicuramente sarebbe opportuno prevedere un diretto intervento legislativo che disciplini le ipotesi di incompatibilità e determini la cessazione del fenomeno. Tuttavia la necessità di assicurarsi un futuro dopo l’esperienza amministrativa da parte di troppi politici di professione, la legislatura ormai agli sgoccioli, il rapporto troppo stretto fra i due mondi – come sopra testimoniato – portano a ritenere che un riscontro puntuale a breve non sia possibile.
Ad un livello inferiore si può fare affidamento sulla disciplina interna dei singoli partiti. Già il PD prevede un limite di tre mandati per i propri parlamentari. Il Movimento 5 Stelle ha un articolato sistema di divieti in cui la censura del fenomeno delle “porte girevoli” può trovare puntuale espressione. Sollecitare – e mi rivolgo ad iscritti e partecipanti attivi alla vita politica – la propria area di riferimento in tal senso costituisce sicuramente un momento di crescita per l’intera struttura democratica della Repubblica.
Ma come sempre il contributo maggiore può e deve venire dai singoli. Sono le stesse imprese che – per marcare la differenza fra chi opera senza condizionamenti ed aiuti sul mercato e chi, invece, non disdegna di agire in zona d’ombra – devono iniziare ad adottare nei propri statuti articoli e clausole che escludano la possibilità di assumere – per un periodo di comparto – ex amministratori pubblici con cui hanno avuto – anche solo potenzialmente – rapporti. In questo solco avremo società che rispettano l’ambiente, società che non sfruttano i lavoratori, società che producono in Italia e società – per scelta – libere dalla politica. E il consumatore elettore potrà sapere, potrà sceglierle e potrà premiarle. In questo percorso è infatti fondamentale l’ausilio delle associazioni dei consumatori, con la loro importante capacità di informare l’opinione pubblica e formare la coscienza civile.
C’è un altro soggetto che può dare un contributo determinante in materia. E mi riferisco all’ANAC del dott. Raffaele Cantone, al quale va l’invito ad affrontare il tema. Se la politica – per ignavia, interesse o altro – non vuole ora intervenire che si costringa la stessa – e le imprese – ad agire. Il Codice degli Appalti è appena approvato ma già ci sono richieste affinché vi si rimetta mano. Non è pensabile che chi amministri la cosa pubblica passi a quella privata e poi concorra a gare promosse dall’ente che fino a poco fa lo vedeva ai vertici. Si prevedano divieti di partecipazione alle imprese che non adeguano i propri statuti e le proprie norme organizzative interne a modelli e meccanismi che garantiscano totale trasparenza. Si valuti la possibilità che gli appalti pubblici prevedano una componente dei punti assegnabili sulla base di relazioni o certificazioni che garantiscano la trasparenza e l’assenza di conflitti d’interessi dei soggetti che concorrono. Quale costo – in termini di tempi e spese di giustizia – si risparmierebbe eliminando ogni potenziale zona d’ombra e riducendo le possibilità degli ormai costanti ricorsi a seguito di aggiudicazioni non gradite? Personalmente ho avuto modo – nel contesto della prima professione – di assistere clienti che mi hanno chiesto di valutare le proprie potenziali situazioni di conflitto d’interessi, al fine di risolverle ed elaborare modelli che ne evitassero la futura insorgenza, oppure di competitori sul mercato, per agire successivamente nelle sedi più opportune. L’ANAC ha l’autorità ed il potere di colmare questo vulnus del sistema: perché tutti crediamo che non vi siano scorrette infiltrazioni fra imprese e politica ma – anche oggi, soprattutto se si vuole contrastare le derive qualunquiste e ridare fiducia ai cittadini nelle persone che ci governano – è necessario che la moglie di Cesare sia al di sopra di ogni sospetto.
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