Il “Waldorf-Astoria” di New York è uno dei più celebri hotel al mondo. Oltre per il lusso che lo contraddistingue è noto anche per i personaggi famosi che vi hanno soggiornato con continuità: dal generale Douglas MacArthur a Marilyn Monroe, passando per i Duchi di Windors, innumerevoli sono coloro che hanno avuto – per periodi più o meno lunghi – un appartamento nel complesso.
La possibilità di vivere in hotel – monetizzando addirittura l’investimento – diventa ora possibile anche in Italia, con una novità normativa che rischia di modificare totalmente il mercato alberghiero e delle residenze di villeggiatura (le cosiddette seconde case).
E’ stato infatti pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 6 marzo 2018 il Decreto della Presidenza dei Ministri n. 13/2018 dello scorso 22 gennaio avente ad oggetto, testualmente, il “Regolamento recante la definizione delle condizioni di esercizio dei condhotel, nonche’ dei criteri e delle modalita’ per la rimozione del vincolo di destinazione alberghiera in caso di interventi edilizi sugli esercizi alberghieri esistenti e limitatamente alla realizzazione della quota delle unita’ abitative a destinazione residenziale“. Si rende ora necessario un generale inquadramento del tema, in attesa dell’entrata in vigore prevista per il prossimo 21 marzo.
I condhotel sono, tecnicamente, dei complessi alberghieri in cui convivono appartamenti di proprietà privata con una propria autonomia – e titolarità distinta rispetto al resto dell’intera realtà immobiliare – e le classiche stanze d’hotel. La gestione è unitaria – in mano al titolare della struttura – con servizi di vario genere condivisi e la possibilità, per i proprietari degli appartamenti, di locare i propri immobili nei momenti in cui non li utilizzano.
La normativa richiamata, che rimanda alle Regioni l’adozione di strumenti particolari e puntuali, prevede una serie di condizioni e regole generali che disciplinano il nuovo istituto.
In primo luogo emergono limiti dimensionali: ogni condhotel dovrà avere almeno 7 camere destinate esclusivamente all’attività alberghiera e un massimo del 40% della superficie destinate alle proprietà private. La destinazione turistico-ricettiva deve essere quindi prevalente.
In secundis ci sono precise previsioni strutturali: l’edificio deve essere stato oggetto di un intervento di riqualificazione che abbia fatto conseguire almeno una valutazione di tre stelle nonché il rispetto della disciplina in tema di agibilità e i corpi di fabbrica destinati all’attività possono essere distinti ma tutti in un raggio massimo di 200 metri dall’unità principale. Si vuole quindi evitare una mera sommatoria di luoghi in favore di una ricostruzione nel senso di un unico progetto.
Ancora, fondamentale è l’unicità della gestione: ci deve essere una sola portineria ed un solo soggetto che gestisca sia la parte esclusivamente alberghiera sia gli appartamenti privati. Il ruolo dell’albergatore è quindi centrale, assumendo anche i connotati di un vero e proprio property-manager.
Contrattualmente il vero snodo è il rapporto tra i singoli proprietari e l’albergatore. La disciplina si infatti limita a prevedere obblighi generali in capo a questi soggetti: per i primi di consentire lo svolgimento dell’attività ricettiva e non fare interventi estetici non condivisi, mentre per il secondo di garantire l’utilizzo degli spazi comuni. Sono elencate altresì una serie di clausole che devono essere inserite nell’atto di compravendita delle unità residenziali (art. 6 comma secondo del Decreto, in breve: descrizione del bene, ripartizione spese, servizi comuni, assenso per l’utilizzo a fini ricettivi) lasciando però proprio alle parti una puntuale pattuizione. L’unico vero vincolo normativo è di carattere temporale e concerne l’obbligo, in capo all’albergatore, di assicurare per almeno dieci anni lo svolgimento dell’attività ricettiva, con una responsabilità solidale – per i servizi comuni – a carico della proprietà.
Volendo dare un giudizio, questo non può che essere positivo ed i vantaggi sono innumerevoli per tutti i potenziali protagonisti.
Gli albergatori, in primis, hanno la possibilità di recuperare i costi iniziali di acquisto o ristrutturazione della struttura rivendendo porzioni della stessa. Successivamente potranno ancora sfruttare commercialmente gli appartamenti privati gestendoli nei periodi in cui i proprietari sono assenti.
Gli acquirenti delle singole unità potranno ammortizzare i costi fissi (pensiamo all’IMU, generalmente elevato per le seconde case in località di villeggiatura) e anzi addirittura guadagnare: la casa al mare o in montagna da voce storicamente di spesa a possibilità d’investimento.
Infine gli enti locali vedranno una riqualificazione di strutture alberghiere ormai fatiscenti e spesso abbandonate nell’impossibilità – normativa – di procedere a trasformazione in unità residenziali, con positive ricadute in termini fiscali ed occupazionali.
Una nuova possibilità per tutti? No, qui si deve essere rigidi: il condhotel necessita – soprattutto in capo agli albergatori ma anche ai singoli proprietari ed oltre – di un nuovo approccio e una nuova visione.
Chi acquista non deve dimenticare che non sta semplicemente comprando una proprietà ma effettuando un investimento e pertanto deve capire se il tipo di progetto prospettato riscontra le sue aspettative e soprattutto se il gestore merita la sua fiducia. Il singolo proprietario non è un semplice padrone di casa ma un vero e proprio investitore che decide di non immobilizzare in via improduttiva una somma di denaro ma di cercare un ritorno, coniugando interessi “di svago” ed economici.
L’albergatore deve avere fin da subito le idee chiare su tipo di struttura, posizionamento, clientela, margini operativi e brand: è evidente che un condhotel non sia una struttura per tutti, dovendo coniugare ospiti e proprietari. Il vero punto di svolta è la capacità di gestire le unità residenziali in ottica ricettiva, gestendo il rapporto con i propri investitori ed essendo capace di utilizzare ogni loro momento di non utilizzo garantendo a tutti copertura delle spese e – possibilmente – buoni margini di guadagno.
Ma in gioco entrano anche le società immobiliari, che acquistano e ristrutturano strutture ad oggi inutilizzate – perché i Comuni non concedono trasformazioni di vecchi alberghi in complessi esclusivamente residenziali – potendo altresì godere di bonus in termini di cubatura. A costruttori ed immobiliaristi la sfida di sapere scegliere luoghi e persone, potendosi avere una proprietà del complesso, una – frazionata – delle singole unità abitative, ed un gestore – con contratti d’affitto – del ramo alberghiero.
In tutto questo, come già sopra ricordato, centrali diventano gli strumenti contrattuali, per garantire da subito regole chiare e minimizzare le difficoltà in ipotesi di criticità, soprattutto legate ad un possibile non soddisfacente rendimento dell’attività ricettiva. La presenza di più soggetti, diversi centri d’interesse e distinti obblighi impone trasparenza e consapevolezza: non si sta semplicemente “comprando o vendendo casa” e “affittando un albergo”, ma creando una struttura giuridica complessa, con regole diverse per ogni singola ipotesi. Il consiglio – inevitabile – per tutti i protagonisti è di affidarsi a professionisti (in questo campo la riserva di competenza notarile è totale) di totale fiducia, interessandosi ad ogni aspetto del rapporto, anche se di non propria diretta ricaduta (si pensi ad esempio il contratto d’affitto di attività alberghiera per i singoli proprietari).
In conclusione, oggi con i condhotel si apre un nuovo mondo per tutti nell’immobiliare: come sempre ci saranno speculatori improvvisati ed operatori preparati, con la possibilità di incontro fra figure molto diverse ma tutte determinanti per ottenere risultati positivi. Qualunque ruolo si abbia o si ambisca ad avere – immobiliarista, gestore, proprietario – devo ricordare che le possibilità non mancano ma neppure i rischi, e l’unico grande errore che si può fare è procedere non preparati.
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