Nell’impresa c.d. familiare, ai sensi dell’articolo 230 bis Codice Civile, primo comma, il familiare che – in modo continuativo – presta la propria attività di lavoro ha diritto – proporzionalmente alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato – al mantenimento (tenuto conto della situazione patrimoniale della famiglia), alla partecipazione agli utili dell’impresa familiare, nonché ai beni acquisiti con essi, agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, ed alla prelazione per il caso di cessione a terzi dell’attività di impresa ovvero di divisione ereditaria. Tutto ciò salvo sia configurabile un differente rapporto.
Quest’ultimo inciso, che introduce l’articolo 230 bis Codice Civile, è emblematico della ratio dell’introduzione delle imprese familiari nel nostro ordinamento e delle finalità di tale tipologia di impresa. Dalla sua introduzione, infatti, risalente alla riforma del diritto di famiglia (articolo 89 della legge 19 maggio 1975 n. 151), ancora oggi è frequente nella prassi che, chi intende avviare un’attività – in cui coesistono un imprenditore individuale e collaboratori appartenenti al suo nucleo familiare – di modeste dimensioni e con un modesto giro di affari si affida a questa forma di impresa individuale, istituita ad hoc. In più, è tutelato il familiare che presti la propria attività lavorativa (la più ampia: attività manuale, intellettuale, di manodopera o gestoria, ovvero avente funzione esecutiva e decisionale) nel caso in cui non vi sia né un rapporto di lavoro subordinato che lo leghi all’imprenditore familiare né si rientri nell’ipotesi di associazione in partecipazione, tantomeno del contratto di società di cui all’articolo 2251 Codice Civile.
Con la sentenza 16 settembre 2014 n. 23676, la sezione lavoro – che ha rimesso il caso alle Sezioni Unite per aver ravvisato un contrasto giurisprudenziale sul tema – della Corte di Cassazione coglie l’occasione per riflettere sulla compatibilità – o meno – dell’impresa familiare con la forma societaria; tale compatibilità risultava sussistente per la Corte di Appello di Torino (come da sentenza in data 5 novembre 2009).
Le Sezioni Unite riconoscono, anzitutto, un contrasto giurisprudenziale, determinato dalla mancata previsione nell’articolo 230 bis Codice Civile dell’esercizio di un’impresa familiare in forma societaria. Ci si domanda, allora, se tale dimenticanza celi una scelta mirata del legislatore in questo senso ovvero si tratti meramente di ammettere la forma societaria, ma detta possibilità resti implicita, in osservanza del principio di economicità. Gli indirizzi della giurisprudenza e della dottrina sul punto sono, in effetti, molteplici e sono stati analizzati e criticati dalle Sezioni Unite come segue:
- il 230 bis Codice Civile è norma eccezionale, pertanto è esclusa l’interpretazione analogica della stessa: è inammissibile esercitare l’impresa familiare in forma societaria perchè non espressamente previsto. In realtà secondo la Cassazione, sarebbe più opportuno intendere l’impresa familiare come un istituto autonomo e speciale;
- deve escludersi la compresenza di rapporti, uno fondato sul contratto di società – tra terzi soci e debitore – e l’altro subordinato – del familiare collaboratore rispetto al debitore: non si esegue l’impresa familiare in forma di società;
- esistono nell’impresa familiare alcuni tratti associativi che renderebbero estensibile la disciplina societaria anche alle imprese familiari;
- sussistono elementi peculiari dell’impresa familiare, rilevanti ai fini della ricostruzione della fattispecie (natura individuale, regime fiscale dei familiari collaboratori…);
- si dovrebbero applicare regole dettate per l’impresa familiare in modo selettivo, destrutturando la norma e distinguendo il nucleo, necessariamente applicabile anche tra socio e familiare, dai restanti poteri, eventuali, che risultano possibili solo per l’impresa individuale. Tuttavia, tale tesi dottrinale non appare convincente per le Sezioni Unite.
In conclusione, la Cassazione nel 2014 aderisce alla incompatibilità dell’impresa familiare con la disciplina delle società di qualunque tipologia, alla stregua sia del criterio interpretativo letterale – per “impresa” il 230 bis Codice Civile intende l’attività economica organizzata, non l’imprenditore come soggetto obbligato – sia del criterio teleologico, da cui emerge come l’impresa familiare abbia natura solo residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile (“[…] salvo che sia configurabile ogni altro rapporto”). Ancora, il riconoscimento di diritti corporativi per i familiari dell’imprenditore contrasta con le regole societarie relativamente al potere di gestione. Da ultimo, l’incompatibilità è dimostrata anche dalla disciplina patrimoniale relativa alla partecipazione agli utili dei familiari collaboratori, nonché a quanto ad essi spettante ai sensi dell’articolo 230 bis, primo comma Codice Civile, non in proporzione alla quota di partecipazione, ma – differentemente da quanto avviene per società di persone e società di capitali – al lavoro prestato nell’impresa familare.
Il principio espresso dalla Corte Suprema, dunque, risulta di alta rilevanza pratica, formale e sostanziale,del quale non può tenersi conto in fase costitutiva di un’impresa familiare, ai fini dell’individuazione della corretta qualificazione dell’istituto, della identificazione della giusta disciplina giuridica applicabile, garanzia anche di una conoscenza preventiva dei risvolti futuri e delle problematiche che eventualmente potrebbero interessare la vita dell’impresa familiare costituita.
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