Cosa succede se uno dei due coniugi, sposato in regime di comunione dei beni, svolge un’attività di impresa? Può il regime patrimoniale scelto dai coniugi influenzare l’attività di impresa? Questi interrogativi sono alla base dell’ordinanza n. 8222 in data 27 aprile 2020 della Corte di Cassazione.
La Suprema Corte, dopo aver affermato che tra i coniugi in comunione dei beni può essere costituita una società di persone al cui patrimonio appartengono i beni conferiti in società, dà atto che i regimi dello svolgimento di attività d’impresa nell’ambito della famiglia possono assumere qualificazioni giuridiche diverse ed essere influenzati dal regime patrimoniale dei coniugi. Tali qualificazioni giuridiche sono caratterizzate da diverse discipline regolatrici dei rispettivi rapporti e possono essere riassunte in:
– l’azienda coniugale, disciplinata dall’art. 177, comma 1, lett. d) Codice Civile;
– l’azienda appartenente ad un solo coniuge con mera comunione degli utili e degli incrementi, cui fa riferimento l’art. 177, comma 2, Codice Civile;
– l’impresa gestita individualmente da uno dei coniugi, ex art. 178 Codice Civile;
– l’impresa familiare, disciplinata dagli artt. 230-bis e 230-ter Codice Civile;
– le società di persone, di capitali e cooperative.
Prima di esaminare nello specifico le fattispecie in oggetto, bisogna anzitutto precisare che, quando si parla di regime patrimoniale della famiglia, si fa riferimento al complesso di regole, poste dalle convenzioni delle parti o dalle norme di legge, disciplinanti la titolarità e l’amministrazione dei beni appartenenti ai coniugi. Prima della riforma del diritto di famiglia, il regime patrimoniale ordinario era costituito dalla separazione dei beni, in base alla quale, ciascuno dei coniugi conservava la titolarità, il godimento e l’amministrazione dei beni acquistati personalmente durante il matrimonio. Con la legge n. 151 del 19 maggio 1975, invece, il legislatore ha stabilito che, in mancanza di diversa pattuizione delle parti, il regime della famiglia è costituito dalla comunione dei beni, sicché gli acquisti dei coniugi, salvo alcune eccezioni, sono comuni e possono essere divisi solo con lo scioglimento del matrimonio e negli altri casi espressamente previsti dalla legge. La loro amministrazione spetta, dunque, disgiuntamente ad entrambi i coniugi tranne che per gli atti di straordinaria amministrazione.
Ricordiamo poi, che, ai sensi dell’art. 177 Codice Civile costituiscono oggetto della comunione legale:
a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali;
b) i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione;
c) i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati;
d) le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio. Qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio, la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi).
Ciò chiarito, possiamo addentrarci nell’analisi delle diverse qualificazione giuridiche che può assumere lo svolgimento di un’attività di impresa nell’ambito familiare, le peculiarità di ciascuna e le rispettive discipline, con particolare attenzione ai beni facenti parte della comunione legale.
L’AZIENDA CONIUGALE
L’azienda coniugale è quella che viene gestita in maniera congiunta dai coniugi, spettando ad entrambi la partecipazione alle scelte imprenditoriali, all’amministrazione ed al controllo. Diverse sono, però, le conseguenze a seconda che la titolarità dell’azienda spetti ad un solo coniuge o ad entrambi in comunione legale: nel primo caso la comunione riguarderà solo gli utili e gli incrementi; nel secondo caso la comunione riguarderà anche i beni aziendali.
A tal proposito, possono configurarsi situazioni diverse:
– azienda cogestita appartenente ad entrambi i coniugi prima del matrimonio → solo gli utili e gli incrementi cadono in comunione legale, restando i beni aziendali beni personali pro quota;
– azienda cogestita appartenente ad entrambi i coniugi e costituita da entrambi dopo il matrimonio → cadono in comunione gli utili, i beni destinati all’esercizio dell’impresa e gli incrementi della stessa;
– azienda cogestita appartenente ad uno solo dei coniugi prima del matrimonio → la proprietà dei beni aziendali rimane al coniuge cui l’azienda già apparteneva prima di contrarre matrimonio; gli utili e gli incrementi, invece, cadono in comunione.
L’AZIENDA INDIVIDUALE
Rientrano in tale fattispecie tutte le ipotesi in cui l’azienda è gestita da uno solo dei coniugi: i beni delle aziende costituite durante il matrimonio, nonché gli incrementi delle stesse costituite anche precedentemente, cadono in comunione c.d de residuo solo se esistenti al momento dello scioglimento della comunione legale.
IMPRESA FAMILIARE
E’ un tipo di impresa in cui collaborano, in modo continuativo, il titolare ed i suoi familiari, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo. Differisce dall’azienda coniugale per il fatto che questa viene gestita da entrambi i coniugi, l’impresa familiare dal solo titolare. Proprio la gestione, secondo la giurisprudenza, è l’elemento discriminante tra le due fattispecie: se la gestione dell’impresa è imputabile ad entrambi i coniugi, si applicherà la disciplina della comunione legale e ad entrambi spetterà la titolarità e l’amministrazione dei beni aziendali, la divisione degli utili e degli incrementi. Se, invece, l’impresa è gestita da uno solo dei coniugi, limitandosi l’altro a prestarvi soltanto la sua collaborazione, si ricadrà nell’ambito dell’impresa familiare con conseguente applicazione della relativa disciplina.
Oltre alle fattispecie qui esaminate, è pacifico, oggi, che i coniugi in comunione legale possono costituire una società – di persone o di capitali. I giudici a tal proposito ritengono che l’esistenza di un atto costitutivo vale a segnalare che non di mera gestione di azienda coniugale in comunione si tratta, ma di titolarità dell’azienda in capo all’ente collettivo.
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