Da un caso di studio è sorto un tema: cosa accade al diritto di usufrutto in titoralità di una società quanto questa si scioglie?
Il quesito (come vedremo) non è banale e prima di addentrarci nel (tentare di) trovare una soluzione è opportuno un breve riepilogo generale.
L’usufrutto appartiene alla categoria dei diritti reali, in particolare al sottoinsieme che ricomprende i diritti reali di godimento su cosa altrui.
A norma dell’art. 981 del Codice Civile, l’usufruttuario è colui che ha il diritto di godere della cosa, a patto che ne rispetti la destinazione economica. Questa definizione rende possibile comprendere pienamente la natura di questo diritto che permette, appunto, di godere di un bene sotto ogni aspetto, con l’unico limite, oltre a quello del rispetto della destinazione d’uso appena ricordato, di non poter alienare la stesso, avendone unicamente il possesso ma non la proprietà
A questo punto diventa importante ricordarne la natura complementare, infatti, tale diritto, insieme al suo opposto, la nuda proprietà, si consolida nella piena proprietà del bene.
Ciò premesso, entriamo in media res e illustriamo quale sia la durata dell’usufrutto. Questa in verità è variabile e può essere stabilita dalle parti (con dunque la previsione di un termine), vincolate, tuttavia due limiti inderogabili, legati alla natura dell’usufruttuario:
– se persona fisica, la vita della stessa (si parla nel caso di usufrutto vitalizio);
– se persona giuridica, anni 30 (ex art. 979 c.c.).
E cosa accade se – nel secondo caso – si prevede una durata maggiore? Un’automatica riduzione a detto limite temporale.
Il decorso del termine (come sopra convenuto e/o disciplinato) comporta ovviamente l’estinzione del diritto. Ma questa non è l’unica causa di estinzione.
Altre cause di estinzione di tale diritto, a norma dell’art. 1014 c.c., infattisono:
1) prescrizione per effetto del non uso per venti anni;
2) riunione dell’usufrutto e della nuda proprietà nella stessa persona;
3) totale perimento della cosa su cui è costituito.
Volgendo uno sguardo più attento all’aspetto che prende in considerazione l’esistenza del diritto di usufrutto in capo ad una persona giuridica, ecco dunque che torniamo alla domanda iniziale: se alla morte di un individuo il diritto di usufrutto si ricongiunge consolidandosi in nuda proprietà, cosa accede nel caso in cui ci si trovi di fronte allo scioglimento di una società?
Potrebbe sorgere spontaneo offrire una risposta che vada ad assimilare la casistica delle persone giuridiche a quella delle persone fisiche ma, in un ordinamento che comprendere varie tipologie di società, oltre a varie correnti di pensiero, la risposta difficilmente potrà essere unitaria.
L’esimio Giovanni Pugliese all’interno di “Usufrutto, uso, abitazione” (pag. 435 e ss.) illustra la teoria secondo la quale allo scioglimento o all’estinzione dell’ente detentore del diritto di usufrutto, anche lo stesso diritto verrebbe meno.
Sicuramente da tale analisi possiamo delineare la prima (e principale) corrente di pensiero che considera l’estinzione di tale diritto indipendentemente dalla natura che caratterizza la società detentrice dello stesso.
Un’ulteriore linea interpretativa, invece, tende a valorizzare la natura dell’usufruttuario persona giuridica, distinguendo fra società di persone e società di capitali.
In particolare, solo nelle società di capitali l’avvenuto scioglimento dell’ente determina l’estinzione del diritto. Si argomenta che tale conseguenza deriva dall’essere le stesse dotate di personalità giuridica. In breve, la totale e piena autonomia del patrimonio sociale da quello dei singoli soci determina che alla scomparsa della società sia collegato il venire meno anche del diritto di usufrutto. In questo contesto lo scioglimento è paragonabile alla morte della persona fisica.
Analogo ragionamento, si prosegue, non vale invece per le società di persone (SAS, SNC, SS) perché qui – difettando la personalità giuridica – vi sarebbe maggiore “confusione” fra il patrimonio sociale e quello dei soci, con conseguente possibilità di ipotizzare che allo scioglimento dell’ente il diritto di usufrutto possa residuare ed essere attribuito proprio ai soci.
La tesi – si permetta – pare non convincente.
La distinzione basata, infatti, sulla personalità giuridica rischia di essere fuorviante perché sia nelle società di persone che in quelle di capitali si è comunque innanzi ad enti che costituiscono un autonomo centro di diritti e hanno una propria soggettività. L’eventuale mancanza di totale autonomia patrimoniale non costitusce un meccanismo di transito di diritti fra l’ente e i suoi soci.
La circostanza è altresì sostenuta anche dalla normativa (si veda art. 2, commi da 36-terdecies a 36-duodevicies, del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito dalla L. 14 settembre 2011, n. 148) e giurisprudenza tributaria che inesorabilmente punisce tutti quei fenomeni di utilizzo gratuito (o facilitato) di beni sociali da parti dei soci, anche nelle società di persone.
La chiave di lettura deve essere allora diversa.
A sostegno della tesi di cui sopra si cita spesso il principio di diritto enunciato – relativamente ad una società in nome collettivo – dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, 22 febbraio 2010, n. 4062, secondo cui:
“Qualora all’estinzione della società, conseguentemente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facete capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo di tipo successorio, in virtù del quale: […]; b) si trasferiscono […] ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta […].”.
Sfruttando l’inciso citato si afferma che lo scioglimento di una snc – che ne rappresenta l’estinzione – comporta la devoluzione ai soci del patrimonio residuo all’esito del percorso liquidativo. Pertanto anche il diritto di usufrutto a tempo si vedrebbe “assegnato” – per la durata residua – ai soci medesimi.
L’interpretazione che si vuole offrire è parzialmente diversa, e vuole muovere da due direzioni: la pronuncia di cui sopra e il dato letterale dell’art. 979 Codice Civile.
La sentenza della Corte di Cassazione citata – e lo stesso principio di diritto riportato – espressamente collega il concetto di estinzione di una società a quello di “morte”, addirittura con un rinvio al “fenomeno successorio”. L’estinzione di una persona giuridica (il suo scioglimento) è in pratica come il decesso di una persona.
Da qui muovendo possiamo ricordare come se viene a mancare una persona fisica titolare di un diritto di usufrutto a tempo e la durata è ancora in essere lo stesso cadrà in successione a favore dei suoi eredi.
In parallelo, anche alla luce della giurisprudenza richiamata, lo stesso potrebbe valere per le persone giuridiche, ma senza necessità di distinzione fra società di persone e di capitali, perché il fenomeno è il medesimo e prescinde dall’autonomia patrimoniale dell’ente. Ciò che conta, infatti, non è il rapporto genetico fra socio e società ma il passaggio di diritti fra la seconda (estinta) e i primi all’esito dello scioglimento, secondo dinamiche che sono esattamente medesime.
Così argomentando si giungerebbe, infine, a concludere che in ipotesi di scioglimento di una società – di persone o di capitali, indifferentemente – il diritto di usufrutto a termine possa essere assegnato, all’esito della liquidazione, ai soci e degli stessi rimarrà fino all’estinzione per scadenza.
La ricostruzione deve tuttavia essere integrata.
Non si può infatti limitarsi allo scenario del diritto di usufrutto a termine, in ambito societario, senza dimenticare che qui vi è una sostanziale differenza rispetto all’universo delle persone fisiche: la durata massima è prefissata in misura certa e numerica nel quantum, dato in anni trenta.
In questo solco si deve dunque chiarire che con usufruttuario persona giuridica tre sono i possibili scenari:
– diritto di usufrutto con termine chiaro (esempio: 10 anni, 20 anni, 30 anni, et coetera);
– diritto di usufrutto sine die;
– diritto di usufrutto con termine l’estinzione della società e comunque non oltre la durata massima consentita dalla legge.
Tutto quanto sopra ricostruito, infatti, ben si veste con la prima opzione, ma già entra in difficoltà con le ulteriori due.
Se il diritto di usufrutto, infatti, ha una durata prefissata anche per le persona giuridiche accade ciò che naturalmente succede per le persone fisiche e il fenomeno successorio sarà speculare.
Ma se il diritto di usufrutto è stato costituito a favore della persona giuridica sine die o fino allo scioglimento si può replicare il ragionamento?
A mio parere no, in quanto in questi scenari il termine del diritto di usufrutto non è dato da una scadenza in termine di data esatta bensì dal fenomeno estintivo della società, che è perfettamente sovrapponibile all’evento morte per le persone fisiche.
In breve, l’art. 979 c.c. – con i suoi 30 anni – interviene in assenza di uno scioglimento della società (e ovviamente diverso inferiore termine pattiziamente previsto), che ove precedente estingue l’usufrutto, così come la morte determina la cessione dell’usufrutto vitalizio.
Rimane infine un ultimo incidentale scenario non così raro nell’attuale prassi commerciale. E’ caso del socio superstite di una società (tipicamente di persone, ma non esclusivamente) che decide di non voler o poter ricostituire la pluralità e opta per modificare la natura della propria società che assumerà le vesti di un’impresa individuale, assistendo così al trasferimento dei diritti in capo a se stesso quale unico socio rimasto.
A tale proposito, al fine di delineare un quadro più completo, è necessario ricordare che tale modalità di prosecuzione non è delineata dal legislatore ma, richiamando la sentenza n. 496 del 14 gennaio 2015 della Corte di Cassazione, si può evidenziare il chiaro principio che emerge della stessa, secondo il quale non è definibile come trasformazione in senso tecnico il passaggio da società ad impresa individuale.
Possiamo ipotizzare che, seguendo l’iter che prevede lo scioglimento della società ipso iure con il venir meno della pluralità dei soci con conseguente “assegnazione” della stessa all’unico socio rimasto che proseguirà, dunque, l’attività come impresa individuale con una nuova partita IVA e subentrando nei rapporti attivi e passivi con conseguente cancellazione della snc dal Registro delle Imprese ed acquisizione, si abbia anche la permanenza del diritto di usufrutto in capo a tale socio che avrà, a tal punto, assunto le vesti di imprenditore.
Concludendo e riassumando in breve, tre sono le possibili risposte alla domanda “cosa accade al diritto di usufrutto quando la società si scioglie“:
1) estinzione;
2) estinzione se l’usufruttuario è società di capitali, assegnazione ai soci se società di persone;
3) assegnazione ai soci se c’è un termine non ancora spirato, altrimenti estinzione.
La soluzione – unica – per evitare criticità è, ovviamente, quella di regolare puntualmente in sede di atto costitutivo del diritto la durata e tutte le ipotesi connesse allo scioglimento della società ed altresì a fenomeni trasformativi o legati ad operazioni straordinarie.
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