L’Italia si avvia verso nuove restrizioni delle attività; il numero dei contagiati e dei decessi aumenta; la rincorsa ai decreti emergenziali continua; le risorse stanziano la mattina già risultano insufficienti la sera; le tempistiche si dilatano ogni giorno.
In questo scenario di oggettiva ed inaudita gravità risulta necessario interrogarsi su cosa ci aspetta nel breve periodo e se (prima che come) il sistema Paese riuscirà ad uscirne.
Prossimamente pubblicheremo le misure del decreto “Cura Italia” di interesse dei nostri ambiti d’azione e – appena le prospettive temporali diventeranno più nitide e primi dati saranno valutabili – mi avventurerò in un’analisi focalizzata sulle ricadute del coronavirus con particolare attenzione all’ambito immobiliare; anticipo ora però le prospettive generali che ritengo più plausibili.
All’orizzonte si affacciano tre distinti scenari assai diversi fra loro.
Il primo è quello che potremmo banalmente definire dell’Armageddon, il luogo in Israele (plausibilmente Megiddo) teatro di battaglie e raduni d’eserciti invasori che è giunto a definire – nel Cristianesimo – la fine del mondo. In questa ipotesi – infatti – le misure di contenimento dell’epidemia si dimostrano insufficienti, con necessità di prolungare le restrizioni alle attività non essenziali oltre il termine prossimo venturo con scadenza non a breve.
La decisione letteralmente travolge intere categorie lavorative e una larga fetta della popolazione già provata da un contesto economico pluriennale non favorevole e cronica mancanza di liquidità. I partner europei – more solito – non aiutano e il mantenimento dell’ordine pubblico assurge a primo problema, in uno Stato che inizia anche a conoscere difficoltà nel liquidare gli stipendi pubblici. Questa criticità – in particolare – non è così recondita se si considera che il Ministro dell’Economia Roberto Gualtieri in un intervento televisivo del 16 marzo anticipava la sospensione dell’IVA invitando comunque chi fosse in grado a pagare, riconoscendo per i benemeriti una menzione speciale. E’ evidente come la necessità di liquidità dell’Erario sia palese e l’ammontare (rilevante ma non determinanrte) delle risorse ad ora pianificate rispetto ai partner mondiali testimoni come ci siano dei limiti a cui ormai siamo prossimi.
Il problema smette quindi di essere sanitario, non diventa più solo economico ma esplode in una dimensione di tenuta dello Stato; a rischio l’Italia come l’abbiamo conosciuta.
Il secondo scenario – meno tragico ma sempre grave – vede un Paese che conosce un contenimento della pandemia entro metà aprile ma vede esplodere la crisi economica. I provvedimenti adottati risultano nel complesso insufficienti (e chiarisco: ad ora sono in effetti insufficienti, soprattutto per alcuni settori produttivi) ma il ricorso ai più ampi strumenti monetari e di sostegno messi in campo a livello comunitario consente di sopravvivere. Entrano tuttavia in funzione MES e altri meccanismi di ulteriore devoluzione di sovranità a favore di soggetti terzi, la Repubblica perde ogni residua autonomia economica e ogni sforzo risulta eterodirottato per pagare il deficit estero, secondo un modello già tragicamente conosciuto in Grecia.
Le possibilità di vero recupero economico scivolano infine nell’utopia, con continui tagli alla spesa pubblica, riduzioni salariali, svendita degli ultimi assets di valore e delle infrastrutture. L’Italia diviene così una colonia, e come tale conosce un generale impoverimento, l’aumento delle diseguaglianze sociali, un ritardo cronico in termini di benessere (ma anche salute) con il resto del mondo occidentale.
Il terzo scenario è quello in cui – come ripeto e voglio ripetere ogni giorno – l’Italia ce la farà.
Le misure restrittive vengono prolungate ma entro metà aprile l’epidemia è ormai contenuta e tutte le attività possono ripartire. Si è persa Pasqua, il turismo è in ginocchio, milioni di persone devono fronteggiare crisi e problemi economici fino a due mesi prima sconosciuti ma c’è l’entusiasmo (che una guerra vinta alimenta sempre) per ripartire.
In questo contesto l’Unione Europea ha ormai archiviato le criminali politiche di austerità e concede ai paesi membri di ricorrere al debito per sostenere l’economia, magari utilizzando meccanismi centrali di garanzia (i famosi eurobond, l’unica unione che si sarebbe dovuta fare e che invece è stata puntualmente disattesa). Il Governo utilizza (finalmente!) in maniera accorta questa flessibilità da un lato programmando una spesa produttiva (in primis per la realizzazione di nuove infrastrutture) e dall’altro rivedendo tutta quella normativa sulla carta a favore della concorrenza ma che in pratica ha semplicemente impoverito una larga fetta del Paese e – in ultima analisi – favorito disuguaglianze ed evasione.
La crisi sanitaria si è nel mentre risolta prima in Italia rispetto ad altri luoghi e anche questo ha contribuito alla fine della delocalizzazione industriale; gli incentivi economici, la qualità della nostra manifattura, la possibilità di ripartire subito riportano nella penisola produzioni che già ci erano sfuggite, contribuendo alla ripresa.
Il turismo rimane il settore oggettivamente più colpito, con la mancanza di arrivi esteri. Le limitazioni ai viaggie e un po’ di – naturale – timore a spostarsi consentono tuttavia di compensare grazie ai turisti italiani; interventi (crediti d’imposta per i canoni pagati; contributi per gli interventi di recupero degli immobili) ad hoc aiutano ad affrontare il momento e anche a rivedere la qualità dell’offerta tricolore.
L’immobiliare, alimentato dalla ripresa economica e da tassi d’interesse bassi, vola dopo un primo trimestre tragico, contribuendo in maniera decisiva a sostenere i consumi (ricordiamoci che contribuisce al 20% del nostro PIL).
Tre scenari molto diversi, che nel loro differente epilogo – aldilà di un esercizio letterario e di analisi – significano vite vissute o spezzate, famiglie naufragate o con nuove prospettive, lavoratori soddisfatti o senza futuro, un’Italia che esiste ancora o che scompare dalla Storia.
Il nostro Primo Ministro Giuseppe Conte nel suo discorso del 9 marzo ha citato Winston Churchill e la sua “ora più buia“. E’ un richiamo che apprezzo e che mi permetto di contestualizzare, perchè credo sia utile per capire cosa possiamo fare, cosa dobbiamo fare. Con il termine “l’ora più buia” lo statista inglese si riferisce al periodo che va dal giugno del 1940 (caduta delle Francia) a quello dell’anno successivo (invasione dell’Unione Sovietica) e che segue i tre discorsi tenuti nei mesi precedenti a sostegno dell’intervento inglese sul continente. Questi interventi ci ricordano cosa Churchill chiese e promise al Regno Unito: lacrime, sangue, combattimenti sulle spiagge, un’incrollabile fiducia nella vittoria finale, il sacrificio di ciascuno per la suprema salvezza della Nazione, la necessità di fare quadrato tutti insieme.
Condivido totalmente. L’ora più buia non è come la notte che lascia da sola il posto al giorno, ma per essere superata necessita del nostro totale contributo. Ora – brutalmente – si deve pensare solo all’Italia, questo dobbiamo dire a noi stessi e questo chiediamo alla nostra classe dirigente.
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